lunedì 30 giugno 2008

Le Animenere arrivano a Scampìa. Anzi, no: sono ovunque!

- Sono arrivati, guardali!
- Sì, son loro: fa’ finta di niente… mica li puoi fissare così!

- Noi chiediamo poco: solo la vostra fiducia e questo Paese risorgerà dalle ceneri realizzando i vostri sogni, che sono anche i nostri.


Ah, se di Belmondo fosse piena l’Italia! Una bella famiglia di spiriti liberi e vincenti, di quelle che le guardi e vorresti proprio assomigliare a loro. Un’eleganza raffinata, che lo capisci subito che sono andati tutti alle migliori scuole, e l’Amalia s’è pure laureata: mica è solo bella! S’è poi sposata con u’ poeta, come lo chiamano in giro, uno un poco sgarrupato che dice d’essersi messo in sciopero fin dalla nascita, ma che di bellezza se ne intende. E pure Amalia d’arte ne capisce: un cervello fino tanto da proporre al suo ricchissimo padre di trasformare i musei in parchi a tema, dal barocco al rinascimento, dal rococò al gotico. Tutti con una funzione sociale, mica tanto per fare: musei per single, “love & art”.
I Belmondo fanno davvero invidia. Abiti griffati, istituti di bellezza, un tiro a golf tra un impegno e l’altro, sempre abbronzati e in forma, con quella erre moscia che ne certifica il sangue blu.
C’è solo un neo in tutto questo vanto: Andrea, l’animanera della famiglia. Quel figlio ingrato che di seguire le orme di cotanto ingegno non ne vuole proprio sapere.

Gente ricca i Belmondo, e mica stanno lì ad aspettare che i soldi scendano per caso dal cielo. Sanno lavorare e pensano al futuro: i due fratelli hanno progettato 152 aeroporti per raggiungere tanti sperduti paesini italiani. E poi sì che la comunicazione sarà facile e veloce!
E c’hanno un pensiero pure per gli anziani. Tutto il Sud Italia verrà edificato, diventando località di riposo e divertimento per la terza età del Nord Europa. Già ci spero per la mia vecchiaia, e quasi quasi m’informo se hanno aperto una lista d’attesa e mi prenoto. Speriamo mettano anche i grandi magazzini e tante palme: sarà come stare a Miami!
Certo che, però, con i tempi lunghi della burocrazia… Già, ma loro mo’ entrano in politica, perché il Paese lo vogliono davvero migliorare: “L’era della felicità è arrivata e c’è posto per tutti, pure per gli oppositori. Noi siamo per la libertà, il benessere, la prosperità”.
Mi pare un sogno. È arrivata l’epoca della leggerezza. E chi l’avrebbe mai sperato che l’Italia sarebbe diventata così!

Daniela Arcudi

La famiglia ai tempi del colera

È un flusso di coscienza quello che viene portato in scena da Carmelo Rifici, regista di Chie-chan e io, tratto dall’omonimo romanzo di Banana Yoshimoto, al debutto assoluto al San Ferdinando di Napoli il 13 giugno. Ad adattarne il testo il suo traduttore di sempre, Giorgio Amitrano.
Difficile trasporre teatralmente un lavoro della celebre autrice giapponese. Perché Banana Yoshimoto non punta su grandi azioni o dialoghi ritmati, motori di un più semplice adattamento per le scene. Tra le sue pagine quel che si muove sono i sentimenti, la memoria, le atmosfere. E forse per questo, tra i suoi lettori, o è molto amata o non piace per nulla.

I testi della Yoshimoto andrebbero letti in solitudine, così da immergersi in quel rapporto intimo e psicologico con i personaggi. Eppure il teatro è proprio il contrario. Così Rifici, nello spettacolo, tenta di mantenere questo scorrere narrativo continuo, rappresentato anche da un ininterrotto movimento sulla scena, un fluire dolce e incessante.
A racchiudere i movimenti un involucro quasi asettico, di un bianco clinico addolcito nelle forme, che permette di esaltare gli elementi colorati al suo interno: abiti, accessori, luci di scena.

Ancora una volta Banana Yoshimoto rappresenta un nuovo gruppo familiare, in cui ai tradizionali elementi se ne sostituiscono di alternativi. Nei suoi testi la famiglia d’origine, quella biologica, non ha ormai più - da tempo - il ruolo di protagonista, sostituita da una rete di relazioni e d’appartenenza scelte giorno per giorno. Un rapporto tra cugine diventa così il motore dietro a cui si movimenta la storia, che viene presentata al pubblico quasi fosse un sogno. Il regista dà vita alle quattro Kaori su un andamento polifonico che sembra costruire una partitura. Dall’altro lato Chie-chan, l’anima fragile, da accudire, su cui riversare tante sfumature d’amore. Un’affinità elettiva che completa e chiude al resto del mondo. Loro due, le ipomee e quel bozzolo protettivo in cui non c’è posto per nessun altro.

Daniela Arcudi

sabato 28 giugno 2008

A teatro con F. - La Medée di J.L. Martinelli

Mi telefona F. Dice: “Di notevole questa settimana non mi sembra di aver visto molto, se si toglie una lite tra due zampognari in 600 e un Babbo Natale in altra utilitaria per una questione di paraurti ammaccati”. F. è il solito incontentabile. E’ estate, ma sogna il freddo del Natale. Voglio tirargli su il morale quando lo invito al Napoli Teatro Festival per vedere uno spettacolo, una Medea recitata da attori del Burkina Faso, con la regia di Jean Louis Martinelli. Poi mi è viene in mente che qualche anno fa, parlando di altri allestimenti di Medea, si era lamentato del fatto che tutti si risolvono “in cronache di casi-limite e un tantino deplorevoli”. Un suo modo per dire che la tragedia rischia di diventare una disputa da tinello, da donnette romane d’invenzione, tipo Moravia. Chissà cosa penserà questa volta. Ci sediamo all’aperto, all’Albergo dei Poveri. Un’attrice africana allestisce un fuoco sul palco. F. alza gli occhi al cielo. Romba un aereo. Lo spettacolo inizia. F. sorride quando vede sgambettare i figli di Medea, pronti a essere assassinati dalla madre, ignari del loro destino. E lo vedo fare un salto sulla poltrona quando spunta Creonte, il dittatore in giacca e cravatta e Giasone, il social climber depresso e un po’ parvenu. Medea, intanto, interpretata da Odile Sankara, fa pensare a un animale selvatico, mi piace. Cerco lo sguardo di F., che invece armeggia col suo taccuino. Scrive che questa Medea non è semplicemente “una moglie straniera, una displaced-person abbandonata e colta da un improvviso accesso di follia”. In effetti c’è dell’altro. Nessun tentativo di attualizzare Euripide trasformandolo in un sociologo della famiglia. Ma l’Africa, col suo carico di miti e di terra rossa, dove gli dèi non sono ancora finiti in esilio. F. fa spallucce. Sembra aver sentito i miei pensieri. E sorridendo dice: “Ma chi ha detto che la tragedia è una razza estinta?”.
(F. è Ennio Flaiano. Quello che dice è tratto dalle recensioni che scrisse, sull’Europeo del 1966 e 1967, sulla “Lunga notte di Medea” di Corrado Alvaro e sulla “Medea” di Jean Anouilh).
Rosella Bettinardi

QUEL '700 DI DE SIMONE di Valerio Balestrieri

Il nuovo spettacolo mise en scène di un medley tra opera popolare e opera in musica

LO VOMMARO A DUELLO
Ideazione, drammaturgia, composizione musicale
e regia
Roberto De Simone

regista collaboratore Mariano Bauduin
coreografie
Renata Fusco, Paolo Romano
scene
Nicola Rubertelli
costumi
Zaira de Vincentiis
maestro concertatore e direttore d’orchestra Renato Piemontese


MY Showreel

Durata: 2h e 45 minuti
TARGET - Spettatore livello EXPERT dai 30 anni in su

DRAMA - Perfetta fusione di genere e stili, solo come il ‘maestro’ sa fare. ‘Lo Vommaro’ (1742) di Pasquale Starace incontra di striscio ‘Il duello comico’ (1774) di
Giovanni Paisiello; è come se le due storie viaggiassero su binari contemporanei, unico filtro, prima di raggrupparsi nel finale, una luce blu che distanzia. Il lavoro in realtà esprime un estremo gioco linguistico che antepone o compone il vernacolo popolare, la letterarietà barocca e il ricco linguaggio musicale dell’opera, in una partitura drammaturgica a balzi. Tema comune la temporalità: il Settecento. I colori di ‘Lo Vommaro’ sono quelli che ci si aspetta da De Simone come popolarità, ironia, situazioni e costumi in grande stile: la trama da campiello è un gioco di detti e non detti tra lazzi, promesse e servitori (di due padroni). Il ‘duello comico’ è un farsa in musica ambientata nella Napoli ‘francese’ con caratteri e maschere di atmosfera goldoniana: anche qui il duello diventa escamotage per risolvere amori, sciogliere nodi con lieto fine da prassi.

SET – La cornice è perfetta;
Teatro Mercadante con loggioni e affreschi al soffitto; orchestra in buca, musici acustici in scena. Il vico di sfondo, giocato sui toni bianchi, diventa popolare o borghese attraverso un preciso gioco di luci, che lo rendono funzionale contenitore della piecè.

ACT – Maschere e costumi aggiungono, come dev’essere, e non tolgono forza ai caratteri di scena; profonde certezze come
Angela Pagano e Antonella Morea, fedeli scudieri del maestro ed Enrico Vicinanza, nel ruolo di Nora, rendono agevole un genere non per tutti. Perfettamente in sincrono gli altri, interpreti d’opera compresi.

MOOD – Semplicemente alla ‘Roberto De Simone’, profondo, ricco e incondizionatamente espressivo, propone un paio di momenti da enciclopedia del Teatro: la ‘ninna nanna’ a cappella di Angela Pagano e la
‘tammurriata’ di gruppo nel sotto finale. Il lavoro evidenzia la coraggiosa capacità di ‘innesco’ misurato tra arti, storia e linguaggio, modulato da chi, a suo modo, ha contribuito, senza dubbio alcuno, alla storia del Teatro Italiano del ‘900.

Una produzione
Napoli Teatro Festival Italiain
coproduzione con

Fondazione Teatro San Carlo di Napoli

"Pantagruel Sister-in-Law" di Silviu Purcarete

PANTAGRUEL SISTER IN LAW - Ingredienti per una sera di giugno:
-Un palco 16x12
-16 attori, 2 musicisti
-Un pulcino invisibile
-Un dito fastidioso
-Stoviglie in abbondanza
-Tavoli, secchi, candele, lenzuola
-Suoni
-Rumori sinistri
-Acqua
-Farina
-Abbondante ironia

PREPARAZIONE
Azzerare sesso e caratteri dei personaggi.
Esumare un corpo fresco e nudo dalla sabbia ed estrarre gli organi.
Prendere l'istinto di sopravvivenza e tirarlo ai massimi creando fame e poi fame di altra fame, come dire di altra vita.
Riempire ogni angolo della scena con movimento continuo.
Aggiungere sentimenti rozzi e reazioni primitive.
Intessere, in frenesia di branco famelico, trame d'umanità estrema e montare a neve. 
Mettere da parte un po' d'inquietudine, per far passeggiare allegramente un uomo decapitato in un cimitero di sudari animati.
Utilizzare musica, canto lirico e coro per drogare i sensi.
Destrutturare ogni convenzionalità.
Aggiungere succo di sogno, crema di ipnosi e polvere di incubi assordanti, evitando tuttavia che il preparato di nonsense si ammassi e faccia i grumi.
Se la maionese di corpi impazzisce, alzare il fuoco di rumori, percussioni, belcanto e urla, per tenere a bada i demoni.
Infornare nel boccascena e lasciar cuocere per circa 90 minuti.
Servire dinamico, sporco, sudato e sorridente.
Attenzione: non prendere mai niente troppo sul serio, non cercare in nessun caso, gustando, alcun sapore di affondo filosofico. Mai abbandonarsi alla disperazione, mai pretendere niente di più di una semplice autopsia dello spirito.

La frenesia non è solo primitiva, è vero, c'è molto calcolo nel solleticarsi a vicenda quella fame, molto zelo crudele nell'impastare la farina di carne che Pantagruel arriverà infine a consumare, in una sorta di eucaristia orgiastica. Ma è l'unico ragionamento che ci si permette, in questo sogno ad occhi spalancati. Il cervello viene mangiato quasi subito. Ha trovato il proprio spazio dentro lo stomaco. Chissà più di chi. Questo è vero Teatro.

Sergio Lo Gatto, Lettera 22

“Death is certain”

SIAMO TUTTI CILIEGIE: QUANDO CI APRONO SIAMO ROSSI.


di Tommaso Chimenti Bencini

NAPOLI – Che la morte sia una certezza è un’idea talmente lampante e ordinaria che la cultura occidentale la vuole, attaccata com’è alla materialità della vita, allontanare, nascondere con il vizio del fare, del programmare, del progettare. La crescita esponenziale manageriale, quella che ti fa credere, sprovveduti ed illusi, che domani sarai migliore di oggi, quando invece hai solamente un giorno in meno da poter spendere. E non c’è salvezza, che questo sia chiaro. Da una parte il tavolo con i ferri del mestiere, con gli strumenti che porteranno dolore e procureranno la morte. Eva Meyer Keller nel suo spazio bianco manicomio asettico non prova pietas, ma neanche accanimento. La tortura è un lavoro come un altro: il carceriere statunitense che percepisce uno stipendio per abbassare la leva della corrente della sedia elettrica aziona il meccanismo e si toglie dalla schiera dei disoccupati solo perché sa che altrimenti lo farebbe qualcun altro al posto suo. Non è un problema di morale che, qui come nella quotidianità, è sorpassato dalla necessità. Fare quel che si deve. E farlo bene. Arrivare alla conclusione del progetto. Trattare la fine, altrui, come l’inizio del normale percorso della propria giornata, senza affibbiargli, addosso, sopra, dentro, troppi significati. La morte c’è. Eccovela, ve la sbatto in faccia. La morte è sporca, come la vita. Produce liquami, schizzi. La morte fa rumore, la morte è schifosa. Perché storcere il naso? E’ inutile che siate disgustati, finti, falsi e ipocriti. Ai kamikaze iracheni ci abbiamo fatto il callo, agli 11 settembre no. I morti non sono tutti uguali. Cesare Pavese la pensava in maniera differente. Il rosso imbratta il tavolo che diventa campo di battaglia tumefatto. Ciliegie come martiri cristiani: impalate, annegate, ingabbiate in gogne medievali, crocifisse al muro, squartate, gassate da campo di concentramento, arse come Giovanna d’Arco, d’iniezione letale alla U.s.a. (e getta), scarnificate come San Sergio, infilzate con aghi da voodoo, infilate in mini botti chiodate e shakerate come Attilio Regolo, disossate, sepolte vive, buttate nel cemento alla maniera mafiosa, murate vive come il conte Ugolino o trapanate da dentista de “Il maratoneta”. L’importante è finire, cantava Mina. Sangue, sesso, sport, spettacolo, soldi. Le cinque S dell’attrazione della comunicazione. Il pubblico sadico fa le foto con i videotelefonini, chè la morte fa sempre show, la morbosità di rallentare in macchina guardando il corpo del motociclista con la testa sul marciapiede, la voglia repressa degli scatti di Lady D agonizzante. La strage delle innocenti è compiuta. Complici, assassini alla pari del macellaio. Come non vederci i Khmer Rossi cambogiani, tutti i Garage Olimpo disseminati, Gli Hutu e i Tutsi ruandesi, Saddam con i curdi, Putin e i ceceni, nazisti vari. Che la tortura è comunque forma d’intelligenza e d’inventiva.

venerdì 27 giugno 2008

Medea burkinabè

È riuscito a far parlare persino gli aerei di passaggio il regista Jean-Louis Martinelli; sfrecciando a bassa quota sul teatro a cielo aperto del Reale Albergo dei Poveri davano lampi di sospensione e mistero alla furia di Medea-Odile Sankara, interrompendo i canti salmodiati della tradizione Bambara sull’abbandono, l’amore per i figli e la durezza dell’esilio, imponendo il fermo immagine ai sorrisi finti di un Giasone-fotomodello in doppiopetto grigio che rinnega sua moglie per il jet-set omologato e convenzionale di re Creonte. Nessun effetto speciale, nessuna amplificazione ulteriore, solo il rumore degli aerei veri (ipertecnologico, quotidiano e alieno, celeste e terrestre allo stesso tempo) che appena dopo il decollo prendevano quota verso il buio, entrando a loro insaputa nello spazio scenico di una tragedia scritta da Euripide, tradotta in lingua occitana da Max Rouquette e travasata di nuovo nel francese attraverso il filtro di un dialetto burkinabè. Suoni quotidiani e alieni fanno da colonna sonora a Medea-Odile, terribile quando fissa un punto mentre la mano vaga persa lungo il bordo della veste blu chiazzata di scuro, il ricordo del mare e della salsedine che porta ancora cucita addosso, residuo del tradimento e della strage dei suoi per amore di un uomo che la sta trattando come un ferro vecchio. E di ferri vecchi, impalcature rugginose, secchi di plastica sporchi è piena la scenografia, fatta soprattutto di persone. “Se vuoi andare veloce vai da solo. Se vuoi andare lontano vai insieme agli altri” dice un proverbio africano; il coro è parte del racconto perché la persona non esiste se non in una trama di rapporti, l’amore uomo-donna è talmente forte e pieno di promesse da distruggere tutto quando è trascinato del fango. Martinelli racconta una furia impossibile da controllare attraverso i cardini della cultura tradizionale africana, come il rapporto con l’acqua o il fuoco, prezioso per disinfettare e proteggere; elementi banali e scontati per noi, fattori che decidono tra la vita e la morte in Burkina Faso, dove l’acqua non c’è e quando c’è può essere contaminata, può far ammalare o salvare un villaggio intero. Il bidone arrugginito colmo di pioggia dentro cui parla Odile-Medea non serve solo ad amplificare la voce, ma racconta anche la nostalgia per l’infinito di un Paese che non ha accesso al mare. Dell’uccisione dei bambini resta l’abluzione rituale e un segno di gesso bianco in mezzo al petto, perché una regina che muore deve essere accompagnata da altre morti; a Lagos, nella vicina Nigeria, si dice che il corpo del sovrano deve essere fasciato di cadaveri, altre sette salme devono impedirgli di toccare le pareti della sepoltura. Per questo Medea, morta dentro, ha bisogno del cadavere dei figli.

Silvia Guidi, lettera22