giovedì 26 giugno 2008

COME FA RENATO QUAGLIA A RIMANERE IN EQUILIBRIO SOPRA NAPOLI?

La redazione di Lettera 22 ha incontrato il direttore artistico del Napoli.Teatro Festival Italia. Una conversazione di circa un'ora che ha toccato temi differenti: un dialogo aperto e critico.

Che rapporto c’è tra Napoli e il Teatro Festival Italia?
Già nel titolo della manifestazione c’è Napoli, e poi un punto.
E quel punto ha un valore, un senso.
Renato Quaglia, direttore artistico e ‘morale’ di questo Festival ne spiega le ragioni con motivata partecipazione, emotiva e culturale. E’ necessario che il luogo che ospita non sia osservatore di una vetrina ma parte del Festival stesso e in qualche modo ne abbia in seno la matrice; è questa la chiave di un percorso triennale su cui si sta lavorando. E’ nelle zone comuni che si rintraccia un’area di interesse vero. Renato Quaglia non ha un Teatro, non è un artista ne un produttore. Nasce in Friuli, ad Udine, come organizzatore e passa poi, per diversi anni, dalla Biennale di Venezia in qualità di direttore Tecnico ed Artistico. Oggi siede alla scrivania di Via Dei Mille, a due passi da Via Chiaia, in piena Napoli. E di questa Napoli cerca di aspirare l’essenza da trasferire nel Teatro Festival Italia.

“L’attività si deve porre al servizio di un territorio e non viceversa”.
Siamo qui per lavorare sulla percezione di se stesso che il napoletano ha dall’esterno. Non importa che venga o non venga a Teatro: è importante che si accorga di essere soggetto (e non oggetto) di un progetto culturale, padrone in qualche modo dello stesso. Il ‘modus’ di Quaglia è quello di lavorare affinché il Festival possa esercitare un riflesso in termini prima di tutto sociali, poi economici; la città deve in qualche modo assorbire il meglio dell’atmosfera, dell’aria costituita: internazionalità, tolleranza ed inclusività. Il secondo passo è immagine al proprio interno. L’arrivo di arte e artisti determina degli effetti rispetto alla comunità, con essa si scopre il mondo e la possibilità di uscire da una ‘condizione’.
“Io sono venuto qui per piantare alberi, non mettere fiori alla finestra”.
Il cartellone stesso si ripiega in qualche modo su Napoli; oggi al livello tematico, domani anche produttivo, dato che nasceranno delle co-produzioni per le prossime edizioni destinate a integrare professionalità locali con artisti d’oltre-oceano.
Il Festival deve servire ad innescare dei processi di sviluppo, ecco, come e in cosa, può essere parte di questa città.


Qual è, secondo Lei, il ruolo del critico teatrale?
Il critico si pone come “primo spettatore” di un lavoro che mira a toccare le sensibilità di molti. Gran parte del discorso ruota attorno a una questione di ruolo. È, la performance teatrale, un'opera complessa, che vive e respira non soltanto dell'avvenimento puntuale rappresentato dallo spettacolo dal vivo, ma porta in scena il frutto di un lavoro molto più profondo, svolto tanto dagli artisti che vediamo sul palco, quanto dai produttori che hanno reso possibile quell'incontro artista-spettatore. Il dilemma si pone tra una fruizione che si proponga di comprendere tutto ciò che si muove dietro, dentro e sotto a uno spettacolo teatrale - condizione forse irraggiungibile - e un'altra alla quale abbandonarsi con mente totalmente libera, disinteressata proprio a uno sforzo creativo che è presente non solo sul palco, ma in settimane di lavoro di gruppo tra artisti, produttori e distributori. Occorrerebbe innanzitutto liberare la critica da tutte quelle “incrostazioni” di ruolo che l'hanno appesantita. Se il sistema produttivo, anche a livello di sostenibilità dei progetti, disponesse di una rete di soggetti selezionati e qualificati per valutare la dignità di un'opera proposta, la critica si scrollerebbe di dosso il ruolo scomodo di colui che “decide” se quell'opera ha o meno quella dignità. Per quanto dall'analisi dettagliata e spesso spietata di singoli pezzi del puzzle-spettacolo che la critica rappresentava un tempo ci si stia muovendo in senso più costruttivo, sopravvive dunque, in produttori e artisti, ancora troppa aspettativa - puntualmente delusa - legata all'“opinione autorevole” che il critico darà di quel che ha visto. Forse allora le soluzioni sono due, oltre a quel necessario ridistribuire il ruolo “censorio” all'interno della macchina teatrale stessa. Da un lato il critico, per comprendere a pieno un'opera, avrebbe bisogno di andare a scavare in fondo, dalla fase embrionale del progetto al risultato portato in scena, ruolo che tutto sommato viene svolto, sul piano più generale, dal ricercatore e dallo studioso di teatro. Dall'altro il critico potrebbe porsi sì come “primo spettatore”, esercitando però la giusta consapevolezza, quella che suggerisce l'irraggiungibilità di una visione complessa e complessiva del prodotto. In un certo senso questa critica “buona” diverrebbe una “lettera possibile da uno spettatore a un altro spettatore”, che tenga conto tanto dell'efficacia oggettiva del mezzo teatrale, quanto della sensibilità personale del critico sollecitata o meno dalla fruizione. Come se un appassionato spettatore, privato per accidente del partner, si trovasse a vedere quello spettacolo in solitaria e desiderasse poi raccontare al compagno assente la propria esperienza, toccata tanto ai margini quanto nel profondo di una sensibilità consapevole.



Che 'fine' farà quindi il Napoli. Teatro Festival Italia?
La vera soddisfazione sarà quella di vedersi il festival strappato dalle mani da Napoli stessa. Ma parliamo della città o dei cittadini? A questo proposito è inevitabile sentire la eco delle parole di Enrique Vargas, uno dei grandi successi del festival, il quale durante la conversazione al Premio Napoli aveva spiegato che il problema di Napoli, come di tante altre città, è proprio l'ossessiva attenzione alla produttività "a consumare petrolio", piuttosto che impegnarsi nell'intessere relazioni importanti e durevoli tra gli abitanti. Se si domanda quale risposta la gente stia dando al Festival, come mai solo dopo tre settimane i baristi i tassisti si stiano rendendo conto che la rassegna è iniziata, come mai le donne che vivono sull'uscio del Teatro Instabile o del Nuovo Teatro Nuovo non sappiano cosa sia tutta quella gente, che non è la solita gente, che non è la regia di michele, che è una settimana che tutti chiedono la sala del lazzaretto, il direttore risponde che nei sei mesi di preparazione i napoletani sono stati coinvolti e istruiti su quello che si stava costruendo. Un esempio su tutti, le visite guidate delle scuole al Real Albergo dei Poveri mentre si costruivano i palchi e si ristrutturava la struttura. Sicuramente una bella iniziativa, un'escursione affascinante per piccoli tecnici del futuro; forse sarebbe stato bello portarli a vedere anche uno spettacolo, magari qualcuno decideva di fare l'attore. La sensazione è quella di una zona d’ombra, di ambiguità, una sottile linea rossa tra un'idea romantica, propositiva filantropica su Napoli, sulle sue necessità e le sue bellezze e la realtà di una popolazione schiacciata dalla città stessa. Quest’ultima riesce sempre a rubargli la scena con quella maledetta ma necessaria economia. Anche qui ritroviamo Napoli come concetto piuttosto che come realtà. Strade, mare e Vesuvio, ma pochi abitanti. La sensibilizzazione sui beni materiali, sullo sviluppo economico che porterà il Festival già dalla prima edizione è importante, necessario, vitale, ma non può compensare per il mancato coinvolgimento dei cittadini nel fenomeno artistico. Bisogna facilitare l’accesso ai teatri, giustificarlo, istigarlo quasi, non può bastare avvertire i commercianti che ci saranno artisti che andranno nei loro negozi a comprarsi libri, oppure nei loro ristoranti a mangiarsi la pizza...
...Comunque mancano due anni al riscontro finale, nessun giudizio solo qualche riflessione.

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