martedì 17 giugno 2008

Nuove Sensibilità del 16 giugno


Nuove sensibilità che vanno accettate in quanto tali, in quanto spinta, dolce o potente che sia, verso orizzonti ancora poco conosciuti, oppure conosciuti ma da altri in altri tempi, altri spazi e dedicati a orecchie altre e altri occhi.

SERVE di Gianluca Cheli - Monsieur Jean Genet e le sue serve, che giocano allegoricamente con l'aristocrazia in una sorta di limbo metaborghese. Questo da copione. In scena, tre televisori sintonizzati a filmare il rasoterra della cultura mediatica, da De Filippi a talk show vari. Un triangolo che è più una piramide spianata, a ricordarci, non bastasse l'inginocchiatoio, che quello di Genet è un luogo di culto in cui si celebra l'apparenza. Due attrici - ché tali rimarranno fino in fondo - entrano spedite in sottoveste e mezza maschera. Il resto è forse troppo gridato e sa di eccesso qua e là, dove la messinscena ricalca ciò che scenografia e testo avevano già deciso. Come spesso accade poi nelle operazioni di recupero testi, dal conto avanza a tratti il rischio di attualizzare a tutti i costi, anche quando, come in questo caso, il testo dice tutto. L'idea di tener nascosto il viso delle due serve è rischiosa, viaggia sul filo pericolante dell'anonimato spinto oltre, anche dove non si riesce sempre a sostenerlo. 

In BIOS UNLIMITED Filippo Andreatta sfoglia pagine di letteratura pura e, dove a dettare è il Paul Auster di “Esperimento di verità”, pagine di resoconto il più possibile, appunto, scientifico. Sempre che una scienza della casualità in fin dei conti esista. Pagine di narrazione, che l'autore sceglie di far "intrasentire" registrate, mescolate a sottofondi confusi che spazzano le immagini. È uno spettacolo di figura, ché sulla scena sole sorgono piccole case di legno come d'uccelli migrati, vuote. E niente altro accade se non il cambio delle luci che vi s'incastra su spigoli e buchi che le rivelano cave. Se l'idea è interessante, era forse necessario osare di più nella partitura sonora e nelle stesse luci, specialmente se l'idea forte doveva essere quella della grande città che è continuo movimento, continuo spiegarsi di vite e incrociarsi di sguardi.

C'è poi la piccola e felice impresa di VERY CONTEMPORARY MEN, in cui Damiano Madia che elabora l'ironia, l'humour nero e l'assurdità globalizzante e globalizzata del buon Rodrigo Garcìa, per costruire uno specchio che ci ritrae tutti. Il tema è quello generazionale e, al ritmo dell'ultraglobal televisivo che incastra coreografie da sfida di “Amici” – esilaranti – e monologhi che cabaret zelighiano. Al suono di una umile chitarra pop, viaggiando tra accento torinese e slang siciliano si abbatte qualsiasi parete, verso un coinvolgimento emotivo che ci fa rimpiangere la breve durata di quello che – ci conforta – è solo uno spezzone, uno studio di ciò che sarà.
Memorabile il segmento finale in cui, in un ennesimo inchino a Garcìa, il duello è tra l'artista e il critico, che insiste per premiarlo in virtù della sua manifesta “sofferenza”. Ammicchiamo ai giurati, insomma, ma nel modo più fine. Una grande prova di ascolto e divertimento, per la prima vera boccata d'aria della serata. 

MATERNITÀ (VOLEVO FARE UN FIGLIO MA POI C'HO RIPENSATO) di Reggimento Carri, Roberto Corradino. Prendendo spunto e – forse inutilmente, perché solo per qualche particolare – adattando all'Italia (è citato il format “C'è posta per te”) “Wiping My Mother's Arse” dello scozzese Iain Heggie, Corradino schiera in riga una vecchia madre tignosa (bravissimo, en travesti) e il suo medico di fiducia, raggiunti poi dal figlio di lei con relativa fidanzata. Si percepisce, purtroppo,  la differenza tra attori più o meno bravi, specialmente quando la scelta registica radicale del piazzato che illumina una composta riga di corpi richiede invece eccellenza distribuita ovunque, ché una voce senza corpo, se è rischio corso per partito preso, difficilmente risulta davvero efficace.

SE SI HA L'AMORE IN CORPO NON SERVE GIOCARE A FLIPPER di Livia Gionfrida. Entrando in sala le hostess consegnano agli spettatori una bandiera dell'Italia. “Così partecipate”, dicono. Sul fondo appaiono cinque personaggi vestiti di bianco, rosso e verde. Lo spettacolo si gioca a numeri, uno ciascuno, ognuno un frammento del nostro paese, tra ansie da prestazione, masturbazione, omofobia, calciomania e violenza. Si passa da uno all'altro in un confondersi e riconoscersi nei movimenti, ché le identità dei protagonisti sono filtrate attraverso lenti da sole che non svelano mai. A farla da padrone è l'eccesso in tutto e per tutto, anche laddove un urlo di meno non avrebbe guastato. Ma c'è grande attenzione al corpo e al suo potere di schiudersi e nascondere, nel gioco d'ammiccamenti a un nuovo nazionalismo che incombe. Ad ogni modo la performance stilla più politica e riflessione sociale di quanto non stilli parole e pensieri di Fassbinder, a una nota del quale il titolo rimanda.

Sergio Lo Gatto