sabato 21 giugno 2008

PROPRIO COME SE NULLA FOSSE AVVENUTO

Di Roberto Andò
Con Anna Bonaiuto, Maria Nazionale, Vincenzo Pirrotta, Virginia Da Brescia

Nell’aria l’odore del mare per la prima dello spettacolo di Roberto Andò, una natura morta (così il sottotitolo) per la Darsena Acton di Napoli. Una luna gialla si ripecchia nelle acque del porto. Quel porto dal quale migliaia sono partiti, altrettanti sono arrivati. In questo spazio invaso dal mare e dal passato risuonano i versi di Anna Maria Ortese, Georges Perec, Diego de Silva. Natura morta in mostra in questa installazione mobile su una città di dolore, disperazione, la Napoli città fatiscente di un sud fatiscente. Ognuno col proprio pezzo di mare, col proprio pezzo di storia: gli amanti, i bambini, gli uomini che giocano a carte, gli scugnizzi, i morti, gli immigrati, i borghesi, il sindaco e l’orchestrina. Dal finestrino di un tram la città scorre sotto gli occhi dell’osservatore, immobile. Una città “ridente e terribile, come appunto l’espressione di intelligenza e bontà che appare talora sul viso ai defunti”. Napoli è dunque defunta e la seguiamo, con tutti i suoi personaggi, tutte le sue storie, la seguiamo mentre si sposta in massa, come un corteo, verso la banchina. Come la processione che nei paesi del sud ancora accompagna i morti nel loro ultimo viaggio. Questo viaggio che tutti i personaggi e i musicisti dell’installazione, quasi un centinaio in tutto, attendono, uno accanto all’altro, le spalle rivolte verso il mare.

Eleonora Tedeschi

PROPRIO COME SE NULLA FOSSE AVVENUTO

FUNERALE VIVENTE IN ATTESA DI ASSOLUZIONE

di Tommaso Chimenti Bencini

NAPOLI – “Disumanizzare Napoli non deve essere stato facile, ma ci sono riusciti”.
In un doppio giro di boa diverso ed opposto, Napoli- U.s.a. e ritorno, con imbarcazioni, Titanic e portaeree, pattuglie, figli per mano e moccolo al naso e valigia di spago e cartone finta pelle e soldati d’elmetti e chewing gum e cioccolata e sigarette sciolte, monete, dollari e miseria (senza nobiltà), è compresso il lavoro di Roberto Andò alla Darsena Acton. Compresso è parola ingiusta viste le proporzioni monumentali dello spazio-installazione vivente, un’arena-chiostro occluso tra palazzi rosso pompeiano, e della popolazione attoriale e di comparsate che sfiora le cento unità, con banda al seguito. Come tutti i funerali che si rispettino. Tanti quadri orizzontali gli uni accanto agli altri divisi da piccole barriere, recinti bassissimi di animali, con il surplus-omaggio di una valigia, ma che sembrano insormontabili, che dividono la gente, tolgono solidarietà come fa il mago con la tovaglia da sotto le stoviglie. Dentro ogni piccola vasca tutto è fangoso e sporcato come da schizzi di dissenteria. Piccole assi in quadrato dove con i piedi sguazzano altrettanti mondi napoletani con le caviglie impantanate e zuppe nei problemi da annegarci, nel mare la cui brezza qui arriva felina assieme ai gabbiani ed agli aerei che tutti i comprimari (la vita che entra prepotente nel teatro rigenerandosi a vicenda) si voltano naso all’insù a guardare, constatare, seguire la scia buia di lucine. Acqua, onde che sgocciolano come tubi a perdere nei Quartieri Spagnoli, onde che s’infrangono a Mergellina, onde che non trovano sbocco e decidono di tornare al largo. Mondi distanti, i guappi sulle vespa, il sigarettaro, un Maradona anziano con la maglia numero 10 Buitoni che fa stretching, preti, un morto sul letto, camerieri a “faticare”, vedove a lutto, donne cinesi a tessere, un bar aristocratico che potrebbe essere il Gambrinus di Piazza del Plebiscito, tutti uniti dall’andare, nel limbo dell’attesa diaspora, dal partire in questo riflusso di chi porta democrazia e sifilide e sottrae dignità, come già sottolineò “La pelle” di Malaparte. Anna Bonaiuto, sempre altera, è un Caronte in tailleur tra il degrado e la decadenza, toccando con occhi schifati la piazza e la corruzione, la povertà oscena di risate grasse. Perché Napoli è prostituta e santa, è “Salve Regina” e storpia, è tempesta e dolore di bicchieri rotti, è nuda e gravida, è lirica e melodrammatica e teatrale, è valle di lacrime. Ed il pubblico si miscela con gli emigranti (ricorda “Nuovomondo” di Crialese) chiusi, emarginati nei confini della propria città ed in terra straniera, in una fiumana- corteo funebre, condotti, nella transumanza lungo porto, da Vincenzo Pirrotta sul palco traballante d’impalcature, nel cunto stoppato del maestro Cuticchio e punte da Tom Waits, e Maria, sempre più dopo “Gomorra”, Nazionale a cantarne le povere gesta.

“The new burlesque”

SPARATE SULLA PIANISTA

di Tommaso Chimenti Bencini

NAPOLI – Il Teatro Sannazzaro ha il retrogusto del Bouffes du Nord parigino di Peter Brook. Usando un po’ d’immaginazione. Ma il clima è da can can, ma meno raffinato in un paragone, infattibile, tra francesi e americani, tra Moulin Rouge e ranch, Quartiere Latino e cow girl. Tutto qui è più greve, pacchiano, scontato, al limite del volgare e del maleducato, border line palleggiando tra kitch e trash. Senza essere moralisti, dopo aver visto Crouch, Vargas e Andò il contraccolpo si sente, pesante e dirompente, come il rinculo di una colt. Ne esce bene Marisa Laurito, infarcita e stretta nel suo tubino nero, in forma da “Indietro tutta”, nel suo ruolo ritagliatosi di traduttrice estemporanea. Kitty, la gattina morta dalla risata isterica, che assomiglia di più, per la verità, alla rana dalla bocca larga del Muppet Show, è un frullatore di versetti vocali, che in teoria dovrebbero eccitare, di paillette e lustrini e luccichini demodè, pervasa in una luce rossa da cabaret soft porno, contorcendosi in urletti, strillini. Nessun pudore, zero vergogna nello svestirsi. Le pance al vento, niente a che vedere con la danza del ventre, in uno streap tise roboante di rintocchi di grancassa che alla fine rimane sempre in pendagli agganciati ai capezzoli da far roteare come il pon pon del fez. Dieci per l’autoironia, comunque. Una versione degli show di Dita von Teese, l’ex moglie del satanico rocchettaro Manson. Il copione è da vamp da avanspettacolo, da cabaret ridanciano (Caterina Sagna accanto a me non ride, per esempio), dove non possono mancare gli ammiccamenti, i doppi sensi (“questa canzone la faccio a cappella”), le mosse sculettanti, gli occhioni di ciglia sbattute alla Marylin, gli occhiolini da femme fatale, i bustini in pelle, le giarrettiere strizzate, i pedissequi boa di struzzo, il vedo-non-vedo, gli inchini a mostrare il “boccone del prete”. “Sex bomb” cantava Tom Jones, ma qui siamo game over ed il “mucho gusto”, più volte evocato, non fa presa. Al limite, preferivamo “Drive In”. Dove sono finite le Lollobrigida, le Loren. Ridateci Mata Hari e Marlene Dietrich. Clonate Salomè e Lucrezia Borgia. Si affollano i personaggi del circo, presentati alla maniera dei pugili sul ring di Las Vegas. Non può mancare la contorsionista, il bel cow boy su cavallino a molle, angelo maledetto che manda in brodo di giuggole la sala, un po’ Brad Pitt in “Thelma e Louise”, un po’ Kurt Cobain, molto Buffalo Bill, toro da monta. Altre attrazioni si susseguono come Julie che prima gioca con un pallone gigante per poi entrarvi dentro, danzando, e muoversi e dimenarsi come un tuorlo in un uovo, come uno spermatozoo all’attacco dell’ovulo. Ma l’eccitazione resta ai minimi storici per una sensualità d’annata, da “Capannina” al Forte dei Marmi, da Rotonda sul mare.