mercoledì 18 giugno 2008

L’EREDE DI PULCINELLA di Valerio Balestrieri

Sulle tracce di Eduardo Scarpetta, la commedia musicale
di Giuseppe Sollazzo, compendio del Teatro partenopeo

QUI RIDO IO
Di Giuseppe Sollazzo

MY Showreel

scene Michele Della Coppa
costumi
Luisa Biglietti
musiche Patrizio Trampetti

Durata: 2h
TARGET - Spettatore livello AMATORE dai 25 anni in su


DRAMA – Teatro nel teatro; una compagnia teatrale partenope, sostenuta da ‘Asesori’ (per dirla alla Petrolini) e finanziatori ‘en travestì’, è sulle tracce di Eduardo Scarpetta nel tentativo di produrre un lavoro per un rinomato Festival Europeo (chissà quale?). Avanti e indietro nel tempo, tra prove e fiction si assiste alle fasi salienti della vita del celebre autore napoletano, erede, anagrafico e storico, del più famoso Pulcinella di Napoli, Antonio Petito che gli muore tra le braccia: " Non è morto un uomo, ma è morto un Teatro!". Il giovane Eduardo, da attore di fila, diviene pian piano protagonista, autore e capocomico di un suo Teatro dove mette in scena Napoli e le sue maschere, non più ‘di pulcinella’ ma ‘di popolo’, diventando così capostipite di un genere teatrale.
SET – La scena è tutta teli, come il teatro dei burattini di una volta, persino l’arlecchino è dipinto. Anche il trucco è volutamente forzato; in scena attori o ‘pupi’? Il sipario è parte della scena, si apre se si chiude senza regola mentre i fondali (anch’essi dipinti) cambiano a vista durante ‘la recita’; almeno in Teatro, il passaggio da vicolo ad interno borghese, dura pochi secondi.
ACT – Commedia corale propone un cast di otto attori che vivono tutti i personaggi (anche quelli in cerca d’autore). Il loro slogan è ‘potere agli attori’ e lo esercitano, senza ombra di dubbio, passando di ‘panni in panni’ come funamboli che, senza rete di protezione, cantano, ballano e recitano.
MOOD – C’è Napoli e c’è il mondo. Scarpetta è il pretesto. Si racconta di Teatro che è, e che fu, con la penna di chi, evidentemente, lo vive, ancora tutt’oggi. Commedia all’italiana che celebra i suoi momenti più alti nelle citazioni di ‘Miseria e Nobilita’ e gli altri capolavori di Scarpetta. La regia e vivace con qualche allegoria di troppo. Si finisce come sempre a tarantella. "Siamo trottole (strumml)…e dove andiamo, andiamo, Dio sta a guardare!". Per la cronaca, Petito e Scarpetta, prima di morire "Se piglian’ u’ café!". Così si muore a Napoli.

Una produzione
Associazione Culturale Teatrale
Orazio Costa La Maschera

Valerio Balestrieri

NUOVE SENSIBILITA' - Martedì 17 Giugno, Teatro Nuovo

di Valerio Balestrieri

5 atti unici da 20 minuti, 5 progetti, 5 Compagnie, 5 Regioni differenti.
Un unico filo rosso che li accomuna…i 5 sensi.

MY Showreel

Durata: 100 minuti + intervalli
TARGET -
Spettatore livello BEGINNER dai 20 anni in su

LA VISTA
Di punto in bianco, testo, coreografia e regia Lara Guidetti
Il corpo sociale si muove, si agita, agisce in azione perenne tra voci e rumori che non sono né musica ne disturbo. E’ più un suono univoco, il suono del tutto. Il corpo vive in questo tutto agendo senza senso…le azioni quotidiane riproposte in rapida sequenza meccanica sanno più di androide che di uomo. D’un tratto il ‘patatrak’! Un virus porta la cecità ad un intera popolazione che viene così ‘oscurata’ in un ‘ghetto’; è qui che i ‘malati’ smettono di agitarsi (vivere) e cominciano (o ricominciano?) a strisciare. E’ la vista il mezzo. E’ la vista il linguaggio sociale comune. Senza occhi è tutto un groviglio di corpi che si aggrappano l’un l’altro. Non è più vita.
L’OLFATTO
Zia Rosa di Tennessee Williams, regia Valentina Rosati
E’ una zia come tante, tutta cucina e attenzioni per i nipoti (uno ‘di carne’ ed uno acquisito) che l’hanno accolta in casa. E’ ripiegata su se stessa, come chi ha incassato molti pugni dalla vita. Adora e odora le rose; il suo unico e solo ‘impegno’ è salvare il roseto dal vento e così, in attesa della bufera, munita di forbici taglia i boccioli. I nipoti sono vuoti; tv e chiacchiere. La zia è un peso, deve andare via. Il dolore la distrugge e stretta nel roseto si lascia morire nell’ennesima tempesta. L’olfatto è il suo tramite, è il filtro che all’odore di rosa, rende tutto più sopportabile, persino la morte.
IL GUSTO
L’albero, di Francesco Ghiaccio, regia Marco D’Amore
Due fratelli, uno andato e uno rimasto. Giocavano insieme sotto un’albero. Adesso quello ‘rimasto’ è solo. Mangia, i buoni ‘sapori di una volta’ ricorda non volendo ricordare. Dimentica allora, i giochi e le persone. Anche qui c’è odio e sopravvivenza. Il mondo è scomodo specie per chi è solo. E se il fratello torna? Allora si può ricominciare a giocare. Sotto quell’albero magari, da cui in verità non si è mai allontanato. I rami alti, sono alti, solo perché alla base c'è il tronco che li regge. E’ questo il trucco. E’ questo il sapore della vita ‘di famiglia’.
L’UDITO
Family Show, regia e drammaturgia Lorenzo Facchinelli e Mara Ferreri
Tutti in un acquario, come pesci tropicali. E’ questa l’immagine voluta. Pesci rari, di colori e forme diverse che vivono nella stessa poca acqua. E’ una famiglia. Le relazioni sono telefoniche, gli intrecci viaggiano sul filo dei non detti (sempre al telefono). Incontri e scontri, nati per volontà o per caso, nell’era di una comunicazione filtrata da apparecchi; e si sta assieme giusto il tempo di una foto: un istante. Ci si sente, ma non ci si ascolta, l’udito è solo per se stessi.
IL TATTO
Affascinata
, testo e regia Giuseppe L.Bonifati
Il tatto delle due mani giunte in preghiera. Il tatto del tocco della ‘tammorra’ che accompagna la scena. Il tatto delle mani di chi sa togliere ‘l’affascino’ con acqua e olio. Come nella tradizione di Roberto De Simone di donna c’è solo un carattere mascolino, quasta volta a petto nudo. Sacro e profano si intrecciano, come dita; l’anziano che comprende e vorrebbe conservare, il giovane che vuole a tutti i costi ‘provare’. E’ il gioco delle parti, sotto un velo di cultura popolare che in qualche modo cerca di preservare, con il magico, le virtù. Ma in un modo o nell’altro il tatto, il toccarsi di uomo e donna in questo caso, prima o poi, farà il suo corso.

Valerio Balestrieri

ENGLAND di Tim Crouch, con Paolo Coletta e Mercedes Martini. Regia di Carlo Cerciello

Non sarebbe forse possibile raccontare una struttura così complessa. Una rete in cui rimangono incastrati rapporti, sogni, desideri, dolori e delusioni. Non sarebbe giusto rendere lineare questo flusso continuo.

di Sergio Lo Gatto


PRIMEPAROLE. L'arte è universale. Guardate. Sono un riflesso di tutto il mondo in viaggio per mille specchi. Guardate. Da qui si vede tutto. E io dimentico di ogni punteggiatura. Basta punto. Non c'è spazio per l'ambiguità. Non è arte. Questo è come appariamo.

Queste le righe che questa penna, come a dire questo cuore, stillava, mentre “guardavamo”, appunto, “England” di Tim Crouch alla Changing Role Gallery. Il misterioso ingresso di una donna con cappello e occhiali scuri ci suggerisce che in quel luogo piccolo e caldo qualcosa di grande sta per accadere. Poi, come sangue che invade in silenzio piccola ferita, ecco sgorgare prima lei, poi lui.

Lei alle prese con il racconto di un amore totale, lui dal fare sufficiente ed ermetico, tutt'uno con le opere d'arte che per mestiere valuta e per tasche d'altri acquista. Immersi, noi con loro, nella considerazione del luogo, proprio quella Changing Role Gallery di Napoli che s'immagina invece essere a Londra - “da qui si vede la Tate Modern” -, trasformata in museo della solitudine di coppia. E tale resterà, che loro parlino o semplicemente guardino, noi saremo con loro ovunque vorranno portarci o farci guardare - “guardate!” -, ovunque.

Eleganti, annoiati e sexy, due inglesi perfetti sono i napoletani Paolo Coletta e Mercedes Martini. Asciutta e trascinante la scrittura dello scozzese Tim Crouch, tradotta con sapienza da Luca Scarlini e con forza diretta da Carlo Cerciello che, ci dice Coletta, ha voluto togliere ogni frivolezza alla recitazione dei due.

Arte dell'apparenza, sangue vivo della sostanza, soprattutto se dal difficile rapporto tra i protagonisti si cade sulla falce della morte, si parla di cuori trapiantati, si amano parole come cura, malattia, espiazione, dolore. È in ogni angolo, “England”, un trapianto perfettamente speculare, dal concetto di compravendita d'opere fino al colloquio – spinto avanti da un'efficacissimo dialogo con interprete – con la moglie del morto che ha donato il cuore a lei. Si parla di lei e di lui, nomi non si concedono volentieri, nel testo tutto appare come un flusso continuo interrotto da spazi. Ci si confonde spesso e volentieri su quale sia il momento narrato, quale lo spazio, ma mai su quale sia il senso, cuore che pulsa di inesorabilità, nello spazio angusto e caldo in cui, in fin dei conti, nulla si risolve. Magistrale. Davvero magistrale.

Sergio Lo Gatto

ENGLAND

Due persone. Un uomo e una donna. In una galleria d'arte che potrebbe essere qualunque galleria d'arte. Comunicazione frammentata. Frammenti di informazioni. Capiamo che la donna è malata di cuore. Capiamo che il suo "ragazzo" è un mercante d'arte. La bellezza dell'arte, dei quadri. La spaventosa morte. La perfezione. L'imperfezione. Uno spettacolo che ruota intorno ai temi dell'identità, della cultura, dei viaggi, della comunicazione.
Spettatori e attori si mescolano in uno spazio che ha superato le barriere di palco e platea. Due gli ambienti, all'interno della stessa galleria, in cui si svolgono i due atti della pièce. In mezzo, uno spazio comune nel quale gli spettatori vengono portati altrove, in un luogo in cui convivono intimo e universale, dove grandi concetti etici e morali sventolano alle spalle delle personali storie dei due personaggi.
L'ultimo lavoro di Tim Crouch, nel riadattamento italiano di Carlo Cerciello, è un susseguirsi di frasi, secche, imperative, lasciate fluttuare nell'aria, due voci che si alternano e, di quando in quando, parlano all'unisono. Niente ci è chiaramente spiegato, allo spettatore il ruolo di mettere insieme i pezzi del puzzle.
Due perfetti inglesi, molto eleganti, molto sobri, con un self control tutto "british", alle prese con la tragedia di una malattia, vedono crollare il loro mondo di bellezza, di arte. La donna è malata. Il potere dei soldi le riesce a procurare un nuovo cuore e le regala ancora alcuni anni di vita. Dall'altra parte del mondo una donna ha perso il giovane marito. La donna e il suo nuovo cuore viaggiano per ringraziare, per portare un dono alla vedova del donatore, per il nuovo cuore che ora le batte dentro procurandole un certo senso di estraneità. In compenso riceve indietro una nuova storia su come il cuore è stato ottenuto, non donato. Quel cuore, in cui la vedova riesce ancora a sentire il marito. Una pièce adatta ad essere trapiantata in molteplici luoghi, pur rimanendo intatta nella propria intensità.

Eleonora Tedeschi

LEI. CINQUE STORIE PER CASANOVA

Cinque scrittrici italiane sono state invitate a immaginare la storia delle donne di Casanova. Le vicende del celebre seduttore sono quindi ri-viste con tutta la profondità dell'occhio femminile da Paola Capriolo, Benedetta Cibrario, Carla Menaldo, Maria Luisa Spaziani e Mariolina Venezia
Passiamo attraverso corridoi, chiostri e stanze affrescate della magnifica Certosa di San Martino e nel nostro percorso incontriamo cinque donne.

" Quando uscivo dalle notti lunghe avvinghiata al suo corpo tutto portava il suo odore. Ogni cosa l'odore della sua pelle(...) Di sesso, sapeva." La monaca M.M. è sul suo letto. Una stanza scura e austera. È lei che ha insegnato a Casanova come sedurre una donna attraverso i tutti i sensi e adesso, in un letto pieno di fantasmi, notte dopo notte, nella sua reclusione volontaria si lascia lacerare dal desiderio.

"Ho desiderato davvero che tu amassi ancora come hai amato me. Con la stessa bruciante intensità (...) Non esiste nulla che possa farci sentire vivi più della passione, ed è vivo che io ti voglio (...)" È mollemente adagiata in una bianca vasca da bagno, dietro di lei uno struggente tramonto sul Golfo di Napoli. È la dolce Henriette, il primo amore di Casanova. Sono passati dieci anni e nel saperlo vicino il suo cuore ha un sussulto. Ma non cede alla tentazione di rivederlo. Fuggendo da lui ha conservato intatta la felicità del loro amore, redendolo così eterno.

"«Su, Marie-Anne, ringrazia il signore come si deve...» E io ti ho ringraziato, a modo mio. Si può dire che non abbia mai fatto altro." La terribile Charpillon è rinchiusa in cella, in mano ha gli orecchini di Casanova. Quei piccoli luccicanti oggetti le hanno insegnato che per avere bisogna dare qualcosa in cambio, sempre. Gli orecchini per i quali aveva dato il suo primo bacio. A Casanova.

"Nè mariti né gendarmi, né padri infuriati né alluvioni (...) niente lo aveva costretto a rinunziare a un amore (...) Possibile che proprio l'ingenua sposina lo avesse messo nel sacco?" Ed ecco Lucrezia, l'unica che è riuscita a far piangere Casanova. La pudica e candida donna, pur di non vederlo sposato alla giovane figlia gli aveva fatto credere che lui ne fosse il padre. Abilità di donna.

"(...) in amore la più grande vittoria sta nell'arrendersi, e fra tutti i sensi, in grado di procurare il massimo piacere è quello che pur non essendo uno di loro tutti li racchiude e li trascende: Il cuore". È con l'esuberante e fresca Lia che si conclude lo spettacolo. La cruda verità di un Casanova ormai vecchio e la sua fama leggendaria stridono al punto da far nascere nella giovane diciottenne il desiderio di darsi a un attempato Casanova.

È con un senso di gratitudine che lo spettatore si congeda. Gratitudine per l'emozione di una notte d'estate sotto la luna piena, per le parole, per la magia del luogo, per l’altra faccia della medaglia di quella che non può definirsi altro che una grande storia d’amore.

Eleonora Tedeschi

LE TROIANE

Non è necessario conoscere Euripide e la storia dell’antica Grecia, non è necessario conoscere francese, portoghese e spagnolo per capire questa tragedia dal volto femminile. Perché la desolazione, i toni, i volti parlano un linguaggio comune a tutti. In una scenografia desolata, brulla, sulla nuda terra è rappresentato il dramma delle donne troiane dopo la sconfitta, in attesa di essere portate via e spartite come schiave dai vincitori.

Le Troiane è il lavoro di esordio della Compagnia Teatrale Europea, guidata dai registi Annalisa Bianco e Virginio Liberti e formata da giovani attori provenienti da cinque paesi diversi. Una compagnia multiculturale e multilingue dunque, che porta sul palcoscenico suoni e voci di lingue diverse, sottotitolate, tradotte in scena ma anche lasciate semplicemente lì, incomprensibili. Perchè tanto anche chi non conosce la lingua capisce il dramma, capisce cosa voglia dire non capirsi. Vincitori e vinti, troiani e greci, due culture diverse, sottolineate dalla diversità linguistica.

Riflettori puntati dunque sui deboli, sui vinti. Riflettori puntati sulle donne troiane. Riflettori puntati sulla violenza, sulla desolazione che la guerra si lascia dietro le spalle. Una violenza di morti, di tombe che spuntano in mezzo a gigli bianchi, una città distrutta, in fiamme. Il destino di Ecuba, Cassandra, Andromaca e Elena è il destino delle vittime di tutte le guerre del mondo. L’attualità della guerra si impone in questo spettacolo. Come non pensare ai massacri quotidiani, ai teatri di guerra di cui anche oggi è pieno mondo? Una tragedia che acquista attualità attraverso le parole della scrittrice Susan Sontag e della giornalista russa Anna Politkovskaja.

Le donne dicevamo. A loro si contrappongono uomini e dèi. Vestiti in moderni abiti estivi dai colori chiari e occhiali da sole, ridono alle loro spalle, scherniscono la loro disperazione, leggono il giornale, pescano, mangiano pizza, chiaccherano e si scambiano sigarette. Il destino delle donne troiane è deciso e le vediamo in attesa in quella che ha tutta l’aria di una sala d’aspetto. Una Ecuba vestita a lutto, alla maniera delle donne meridionali, si dispera insieme alle altre che subiranno la sua stessa sorte, e si sdoppia in tre diverse figure, tre attrici diverse a rappresentare la lacerazione interna. Le nere navi greche arrivano. E’ la fine di Troia.

Eleonora Tedeschi

CHIE CHAN E IO

Quattro donne, quattro voci attraverso le quali fluisce il monologo interiore di Kaori, un coro polifonico in cui le parole rimbalzano e si susseguono in una scenografia completamente bianca, onirica. L'adattamento teatrale del romanzo di Banana Yoshimoto porta in scena gli strati più profondi dell'anima di una quarantenne single e indipendente che scopre il bisogno dell'altro. Chie Chan, la cugina poco più giovane di lei della quale si prende cura dopo la morte della madre, è silenziosa, eppure riempie lo spazio con la sua presenza. Con i suoi fiori, con i suoi gesti ripetitivi crea per Kaori uno spazio di serenità. Chie Chan è come un caminetto acceso, il fuoco illumina, scalda il viso e dona un senso di pace e di appartenenza. Chie chan, con la sua presenza, infonde a Kaori una tranquillità così estenuata da sfociare in tenera malinconia e languore.
La paura della morte. Da un incidente, non grave, capitato alla cugina, si snoda la riflessione di Kaori. La morte delle persone amate, la morte di Chie Chan. Cosa accadrebbe se Chie Chan morisse? Da quella domanda, da quella paura si dipanano pensieri che si intrecciano, si sgretolano, si sviluppano in millle altri fili, a creare una ragnatela, un coro di voci, domande, desideri. La soddisfazione dei desideri materiali di lusso ed eleganza non appagano il desiderio dell'anima di dipendenza, non valgono la vita di qualcuno che ami. E' il significato di famiglia la base di questa riflessione. Cos'è la famiglia? Un mero legame di sangue, o un'affinità di anime? Stare insieme in silenzio, guardare il mare senza dire una parola. Il silenzio di Chie Chan riempie la casa e la vita di Kaori. Eppure, si scoprirà alla fine, Chie Chan non è realmente sangue del suo sangue, è stata cresciuta dalla zia ma non è sua figlia. Il legame non viene meno, la condivisione e l'intimità neanche. La famiglia è un caminetto acceso, l'odore della zuppa di riso preparata da Chie Chan, la famiglia è sentirsi piantati a terra con solide radici, la famiglia è non sentirsi soli.
Tutto cambia e, anche se impercettibilmente, si trasforma. Kaori prova a pensare a qualcosa di solamente suo: il bianco e il celeste di Napoli vista dal traghetto, le luci di Murano, l'azzurro della Cappella Sistina, il profumo dei limoni, il bacio nel silenzio dell'aereo di un uomo originale e misterioso, i fiori di Chie Chan, i ricordi, luoghi che superano i confini del tempo, il rosso di qualcosa che brilla nel petto, il luccicante mistero che ogni persona porta dentro di sè.

Eleonora Tedeschi