mercoledì 25 giugno 2008

Assedio alle Ceneri – Lapilli de la Gravitazione

Fumo, nuvole che avvolgono e giocano danze con il corpo. Che si sposta, curioso di conoscerne nuove forme. La percepisci anche con l’olfatto quella nebbia densa e affascinante, a cui manca solo il profumo d’incenso. Il buio della chiesa della Certosa di San Martino fa intravedere a tratti, fra stucchi e marmi, un passato prezioso, ricco di magnificenza. Poi si rischiara. Ma solo di poco. E comincia la voce.
Pare una litanìa da ascoltare ad occhi chiusi, quella di Tommaso Ottonieri. Ma è troppa la magia di guardarsi attorno, con quei giochi di nebbie, luci e musiche, tra il barocco e l’elettronica, per non dar retta alla curiosità di più sensi.
E nelle parole, che ricordano una predica settecentesca in volgare, qualcosa riporta immediatamente e con forza al presente: ecomafia, diossine, acidi, scorie…
Così il fumo candido e accogliente della chiesa fa da tramite a vapori che di lirico non hanno alcunché: gli smog radioattivi di un mondo inquinato. La predica dal pulpito diventa descrizione, preghiera, inquisizione. Terra non vedi?
Polveri amianti metalli pesanti, sali di alluminio sali di ammonio idrocarburi sali di piombo, diluenti, fosfori pentasfuri di fosforo, materiali radioattivi rifiuti ospedalieri residui di verniciatura, ammine composti dello zolfo, del cianuro, arsenici diossine e poi consunti pneumatici a milioni, alimentanti i roghi, scarti di fonderia e ogni sorta di solido rifiuto foriero canchero, gettati a cielo aperto in migliaia di fuochi, in case abbandonate, sul ciglio delle strade, sotto i ponti d’orbitanti circonvallazioni di tangenziali in dissesto”.
Camminano i veleni che amiamo produrre, si spostano e arrivano fin qui, nella Campania già sommersa dai rifiuti. Si sommano, si moltiplicano, raramente si riducono, mai si dissolvono. Noi stiamo a guardare. Lapilli che raggiungono galassie e asteroidi, trasportati per l’universo in attesa di una nuova alba: fatta solo di nero catrame.
C’è l’interesse del Potere, quello con la P maiuscola, che tutto può e non prevede repliche, ad ammazzare il nostro presente e il futuro d’altri.

Daniela Arcudi

De entre la luna y los hombres

Sto in piedi tra gli uomini e la luna,
vi ammalio con le mani e vi illudo con gli occhi
non vi accorgete che sono le mie gambe a sostenermi,
i miei piedi frenetici e i miei polpacci tozzi,
sembrano spaesati ma vi stanno parlando:
stanno dicendo cos'è veramente una donna.


Mujeres al centro del mondo, non hanno bisogno di fronzoli e colori per raccontare la loro tragedia di femmina, di pulsioni e sensazioni che sovrastano il corpo. Fuensanta “La Moneta” ubriaca il pubblico di sorprese fatte di scatti, di occhi cerulei che si congelano mentre la punta del piede batte il ritmo finale, di ghiacci muliebri che riscaldano il cuore delle donne che guardano. Ognuna si ritrova in quei movimenti inquieti ma consapevoli, nei passi rapidi, affannati, eleganti, nelle movenze sensuali delle dita, gli schiocchi, nella fronte corrucciata per un dolore che non può arrivare alle labbra perché altrimenti non ci sarebbe ritorno. Non è uno spettacolo per femministe tristi questo; qui la donna trionfa nelle sue curve, nei fianchi e nella morbidezza di braccia che non hanno bisogno di muscoli e durezza per dominare il mondo, per prendersi la scena. L'essere androgino qui non esiste; non può avere spazio, la competizione lo soffocherebbe, il suo unico posto è sul retro, confuso tra le linee delle mani di chi danza e nascosto tra le note di colei che canta piangendo: Eva Duran. La musica degli strumenti in mano ai cinque uomini è stupenda perché sottomessa alla volontà delle due che gli fanno cenni con la testa, che li dirigono, che determinano la loro bellezza volteggiando su ciò che essi producono. Senza di loro sarebbe solo un po' di musica spagnola capitata per caso al Teatro Sannazzaro, invece gli viene data la possibilità di far parte di un rito. Il regista Hansel Cereza è riuscito a costruire uno spettacolo completo, impossibile da etichettare, non si tratta solo di flamenco, non si tratta solo di commistioni di musicalità, tzigane, spagnole, indiane, arabe, non si tratta solo di incontro tra generi, teatro, musica, tecnologia. Si tratta di una ritualità: l'espressione intima degli artisti si intreccia con quella degli spettatori, c'è una comunicazione inevitabile, la mente di chi guarda è inebriata dai movimenti frenetici di chi schiocca le dita, i sensi sono posseduti dai ritmi battuti dai piedi. Il pubblico ha sempre bisogno di applaudire, sente il pressante bisogno di partecipare,di condividere il momento, di manifestare la propria presenza. Nel corso dei novanta minuti si avverte l'aumentare del caos molecolare, dell'energia che viaggia tra la platea e il palco, fa caldo ma non si riesce a stare fermi. Poi d'improvviso finisce. Buio. Si esce. Fa caldo. Qualcuno sbatte i tacchi per terra, schiocca le dita e poi ride.

Serenella Martufi

Proprio come se nulla fosse avvenuto

Piedi bagnati, putridi, soffocati
per corpi inesistenti. Un presepe di fantasmi
senza volto, senza aria, senza sangue,
le linee delle loro mani sono illeggibili,
estranee, le inventiamo
ma non conosciamo la forza del pugno.

L’universo di Roberto Andò immerso in piccoli stagni, singoli brodi primordiali da cui sembra nascerà qualcuno, qualcosa di grande, o per lo meno da cui si manifesterà una vita. Le cellule sommerse invece non sembrano volersi aggregare e la miriade di volti, di azioni paralizzate che fanno da scenografia a questo allestimento rimangono imperterriti al loro destino. Un qualcosa nel loro organismo non funziona, non gli da la possibilità di nutrirsi della stessa linfa vitale di cui può cibarsi chi sta fuori, chi guarda dall’esterno e ha il privilegio di non sentire l’umido tra le dita dei piedi. Anche qui alla Darsena Acton è stata compiuta un’irreversibile scissone tra chi vive il mondo e tra chi lo racconta. Un teatro in cui ci si specchia piuttosto che un teatro in cui si diventa. Anna Bonaiuto si aggira tra i vicoli asciutti come una dea romantica, un libro tra le mani, occhiali, capelli perfetti, occhi refrattari a ciò che vedono. Il suo respiro è diverso da quello di chi la guarda passare, che per un’ora aspetta il momento di levare i piedi da quelle pozzanghere a cui è stato costretto in nome della poesia. Questa discrepanza di ritmi vitali è funzionale al significato dello spettacolo indubbiamente ma non sorprende, non da una nuova prospettiva, ripete incessantemente che ci sono persone che stanno male, che hanno paura, che non possono fuggire dalla loro condizione non importa le navi che prendono. Questo però già si sapeva, e forse di questo dolore si è detto anche di più,si è scesi più a fondo. Gli stessi autori citati hanno scavato nella loro carne di visitatori o di napoletani privilegiati per farsi un esame di coscienza, rispetto a questi movimenti rarefatti e lenti si è già capito di più. La grandiosità della messa in scena sembra annunciare un’interpretazione collettiva come mai prima, Napoli come città fatta di persone e non di concetti, di sguardi di filantropia. Invece no, anche qui alla Darsena Acton si rimane impigliati in una retorica su Napoli fatta di sguardi, di cose intrasentite, di cose interpretate per il gusto di sentirsi poeti. Non si ascolta mai quello che deve dire colui che stiamo osservando, siamo portati già a formulare un nostro giudizio. La scena viene smossa dalla processione, dal movimento oceanico di attori e spettatori che seguono un santo poco convinto del suo ruolo di annunciatore di morte. Si continua ad aspettare un culmine, un qualcosa che sconvolgerà, che veramente farà acuire i nostri sensi, ma niente. Rimane lo sfarzo di un racconto povero e di dolore. Purtroppo la quantità di errori tecnici che si susseguono durante i novanta minuti di rappresentazione danno anche l’idea che confidando nell’abbaglio dell’enormità della scena, il pubblico e la storia potessero essere un po’ tralasciati. Tanto siamo all’aperto e vi diciamo che la libertà è solo un respiro.

Serenella Martufi

“Viaggio naufragio e nozze di Ferdinando principe di Napoli”

BURATTINI IN CARNE ED OSSA SU UNA SPIAGGIA DI POLVERE DI STELLE.
Se questo e’ un uomo: ecce bombo.

di Tommaso Chimenti Bencini

NAPOLI – Il cortile del Real Albergo dei Poveri pare il monte Ararat dove l’Arca sbattuta ferocemente dalla Tempesta shakespeariana (nel progetto di Carlo Presotto) ha portato a morire la carcassa di questa balena sventrata e spolpata d’assi di legno come costole incrinate da Moby Dick. Una nave che prima si presenta in miniatura, di vele di carta di riso e vimini che veleggia in alto su un filo da equilibrista, prima di disfarsi, ed ingigantirsi, all’ombra del palazzo dei diseredati di impalcature e ombre minacciose, di finestre distrutte e spalancate che sembrano esplose anch’esse per la violenza dell’uragano marino. Sopra, a ricondurre alla realtà, gabbiani, aerei e fuochi d’artifico in lontananza: gli elementi-pennellate che delineano Napoli. Il mare è un vestito-tappeto che si gonfia. Prospero, duca di Milano cacciato dal fratello impostore, animato da quattro attori che si alternano nelle varie faccende, è stato esiliato con la figlia Miranda ignara del proprio rango nobiliare che s’agita con brillantini divini al suo seguito, su un atollo di sabbia dove si muovono figure animalesche come il gobbo-bestia Calibano (effervescente e moderatamente disgustoso e ripugnante), uno Shrek ma meno verde. La nave con a bordo il duca traditore ed il Re spagnolo Alonso naufraga portando in salvo a riva soltanto il figlio Ferdinando che qui troverà l’amore, in una sorta di incontro tra Montecchi e Capuleti, ma più fortunato, e il matrimonio, sopra una scacchiera alla maniera del “Billy Jean” di MJ come se fosse il gioco della campana. L’isola immaginaria è circoscritta dentro un cerchio in questo scenario da Apocalisse all’interno del quale possono penetrare solo gli attori ed i bambini che, appunto, “sono fatti della stessa sostanza dei sogni”. Si rischia di cadere in un piccolo esperimento-remake da “Notre Dame de Paris” ma subito, fortunatamente, dopo tre arie canterine, la piece sale di tono grazie all’entrata in scena dei due carretti-baracchine di burattinai esilaranti (il bambino è sicuro ed abile) che immettono nel testo classico la loro forte impronta d’attualità con inserti di genovese, milanese (il “mi consenta” berlusconiano), e ovviamente napoletano, paragonando la sciagura marinara alle lampedusane carrette del mare canticchiando “Sarà perché ti amo” dei Ricchi e Poveri, disquisendo se quello che stanno facendo sia o meno “teatro sperimentale”. Il “nessun uomo è un’isola” fa rima con il concetto di “condivisione” della recente pellicola di Sean Penn “In to the wild”.

“De entre la luna y los hombres”

VENDEMMIANDO PASSI. IL SUCCO DELLA VITA

di Tommaso Chimenti Bencini

NAPOLI – Dovrebbero colpire i passi, che tacco-punta rumoreggiano setacciando la terra, solcando il confine, mettendo i puntini sulle i, ma sono le mani, come rami indomiti, le protagoniste della piece flamencheira esaltata da Fuensanta. Donne. Davanti. E uomini. Dietro. In un cono d’ombra. Ballo e canto da una parte. Strumenti dall’altra, mani e scatola scalfite come grancassa. E se la ballerina sta sul boccascena, dietro un velo trasparente, di nostalgia, di passato, e quindi d’eterno, la voce di Eva Duran, strazia, si tormenta e si addolora, alter ego vocale dei passi, grintosi ed energici della primadonna. Come generazioni che si capiscono, si supportano. In bianco come una statua greca, ferma, immobile con fare deciso ed il velo che diventa vello e poi mantello, arma che si trasforma in panni stesi, in coperta ed abbracci (senza scomodare Linus), in madre, in telo da corrida, in bandiera, in gonna, stola di pelliccia, abito dentro il quale proteggersi, nascondersi. Schiocca le dita come nacchere e Fuensanta prende di petto la musica, la conduce, e non l’opposto, trascina rabbiosa in una guerriglia con la se stessa (ciò che era, ciò che ne rimane) sdoppiata nel video, una battaglia di tip tap con i tacchi alti che s’inseguono giocando tra i lenzuoli che calano a dividere, separare zone, confini, vicoli, strade, percorsi. Resistenza e ribellione al ruolo imposto dall’esterno, tra la Luna, madre che vede e protegge, e gli uomini che, disperati, non hanno altri mezzi che la costrizione per reprimere spiriti liberi. E’ vero che la Luna è illuminata di luce riflessa ma è altrettanto vero che gli uomini non sono il Sole. Questo passa. La donna-Luna, nella storia, nel mito, nella realtà della nostra società, scatena ancora le maree, sposta le opinioni, decide, forse non in maniera così evidente e estroversa, le sorti. Alza e abbassa le mani in un abito che da bianco candido innocenza si fa nero coercizione fino al rosso consapevolezza nello sbocciare pieno e maturo dell’esser donna completa. Come gli applausi che la sovrastano.