venerdì 20 giugno 2008

P.O.M.P.E.I. – 1° Scavo. Poco Ortodossi Maldestri Piccoli E Inutili

PRIMEPAROLE. Scusate odore, occhi, corpo soprattutto. Devo portarmelo dietro. Bianchi di gesso che non sappiamo più cos’è successo. Lava vulcano lava nostri corpi. Siamo nei versi di stessa preghiera. Diversi versi. Contraddistinte iridi.

Il Teatro Instabile è una sorta di cantina. Umida al punto che, prendendoli in mano, i programmi lasciati sulle sedie vengono su come stracci. Il suono attutito di piccole tossi, luce bianchissima, “state attenti ai fili”. Dall’antro/tenda nascono poi tre figure, affiorano da una colata di lava che è un telo elastico come di lenzuolo. Alessandro, Mauro e Antonio – ché a noi ci si presentano – affiorano da una superficie di stoffa profumata.
Chiedono scusa per il flusso incessante che li accompagna – “ballerini? Danzatori. Ecco, quello” -, il movimento di cui non riescono a liberarsi.
Ora ci ammirano, ora ci scherniscono, infine ci invidiano la nostra compostezza, il nostro sguardo calmo, il nostro essere al sicuro. Di certo riescono nel doppio intento di azzerare la quarta parete e allo stesso tempo di regalarci un’alterità che rimarrà costante per 45 minuti. Di certo ci spiegano perfezione e imperfezione, alla ricerca di un’integrazione totale di tutti e sei i sensi.I tre entrano, escono, interagiscono, discutono, amano, odiano, sorridono, lottano contro quell’imperfezione che ne sporca i movimenti. Tutto senza dimenticare un singolo angolo del corpo, quel corpo bianco, flessuoso, caldo, vivo.
Poi viene il momento della narrazione, il racconto dell’evento che ci rimanda al titolo. In rituali composti e misurati, alienanti e affascinanti insieme, rituali che non riveleremo per non rovinare la sorpresa di un’inventiva sapiente, i danzatori si fanno statue di gesso, creature che l’eruzione di quel Vesuvio incorniciò di lava, incastonandole nella terra come nella Storia. Ora uno scavo – il primo di due, il secondo in programma a fine anno – li riporta alla luce, tirando fuori, sotto gli occhi di tutti, tutta la loro e la nostra umanità.
Aperta, intelligente, attraente, la creazione della Compagnia Caterina Sagna marchia a fuoco i sensi. E lo fa con gentilezza.

Sergio Lo Gatto

P.O.M.P.E.I. 1° SCAVO Poco Ortodossi Maldestri Piccoli e Inutili

Scendiamo in quella che ha l’aria più di una cantina che di un teatro, gli stessi odori, l’aria fresca e umida dei palazzi antichi. Lo spazio è molto stretto, intimo. Escono tre figure da una sorta di colata che arriva fino alla prima fila. Tre danzatori si muovono davanti a noi come spinti da una forza inesorabile che impedisce loro di fermarsi. Ci invidiano nella nostra tranquilla immobilità di spettatori. Chiedono scusa. Scusa per il corpo, scusa per lo spazio, scusa per l’odore. In effetti sono così vicini da poter sentire il loro respiro affannato, da poter notare i loro occhi, uno diverso dall’altro. L’accento è sulle imperfezioni, assolutamente vietate per chi il danzatore lo fa di mestiere. La danza è perfezione, l’uomo è del tutto imperfetto. Il movimento, sporcato dall’individualità, diventa affermazione di umanità, personalità. Il nuovo spettacolo della Compagnia Caterina Sagna si compone di due scavi, questo napoletano è il primo, il secondo sarà presentato in Francia. Gli scavi rappresentano il ritrovamento di forme che sopravvivono a una catastrofe come quella dell’improvvisa colata del Vesuvio. Forme che sopravvivono alla vita stessa, alla fragilità della natura umana, oltre il confine del non esistere più. I corpi ritrovati a Pompei sono mere colate di gesso che, nella loro immobilità, hanno sconfitto il tempo e sono arrivati fino a noi. La loro perfezione risiede nella loro immobilità, protratta nei secoli. L’imperfezione umana è qui rappresentata, in tutta la sua bellezza, da una danza continua, un movimento incessante che trasforma i corpi, crea e distrugge per poi ricreare nuovamente, ogni volta in modo diverso.

Eleonora Tedeschi (Lettera 22)

COSA DEVE FARE NAPOLI PER RIMANERE IN EQUILIBRIO SOPRA UN UOVO

Alla fine del percorso tra le mani stringiamo una piccola matassa, un filo, il nostro filo. “Nell’Africa mediterranea, è Ananke la grande tessitrice, che con i suoi fili tesse le passioni, le vite, le allegrie, i popoli, le città...” Ognuno ha un proprio filo, gli è stato affidato alla nascita, conduce a un destino. Sta a noi scoprire quale. Una città non è solo la pietra dei palazzi, il cemento delle strade, le foglie degli alberi. Una città è fatta da fili, destini che si incrociano, si sfiorano, si lasciano e si ritrovano, percorrono strade comuni formando una costruzione più spettacolare e più intricata di qualsiasi palazzo, chiesa, incrocio di strade. Sul piatto della bilancia il filo invisibile che lega le persone si contrappone alla città di pietra. Il nuovo lavoro di Enrique Vargas è un percorso da vivere attraverso i sensi: quello della vista in parte negato, l’olfatto stimolato da odore di incensi e limone, il tatto di mani rassicuranti e carezze nell’oscurità del cammino. All’orecchio risuonano voci, nomi, pezzi di storie che sentiamo avvicinarsi e poi, improvvisamente, allontanarsi. In uno spazio al di fuori di tutto, vivi, morti e coloro che non sono ancora nati, le loro voci e storie si intrecciano all’orecchio nell’oscurità, per esplodere in quella che sembra una festa di piazza. Ora ci troviamo a ballare l’uno con l’altro sulle note di una musichetta popolare, nel buio illuminato da meduse fosforescenti e lumini, al di là di una intera costruzione intessuta di fili che noi stessi abbiamo contribuito, praticamente, a intrecciare a quelli già presenti. Una struttura in divenire dunque che si smonta e rimonta ad ogni spettacolo, cambia forma attraverso di noi. Condotti infine in un cortile, carta, matita e un lumino acceso lasciamo una raccolta di impressioni, emozioni che questo viaggio ci ha suggerito. Difficile da descrivere con le sole parole.

Eleonora Tedeschi (Lettera 22)

“Cosa deve fare Napoli per rimanere in equilibrio sopra un uovo”

Ghostbusters and friarielli

di Tommaso Chimenti Bencini

NAPOLI – Il moccolo di candela odora di spettri travestiti da meduse. La mano destra mi copre la luce, ma ormai siamo abituati a camminare bendati, abbagliati dal catrame dell’oscuro. Sorridendo, come il tarlo che s’è mangiucchiato, sforacchiato questo legno orizzontale, tavolo finto marcio. Il gomitolo è troppo lieve per impiccarsi.


In un percorso dove perdersi è indispensabile e ineluttabile, attraverso il proprio filo d’Arianna compresso in un “gomicciolo” (per dirla alla maniera dello psicodramma autogestito dei tipi di Monticchiello e del loro teatro povero), gomitolo itinerante tra gli antri (niente Sibille, qui), gli alveoli e le cavità molli delle esistenze, personali ed infittite, intrecciate, ingarbugliate a quelli di altri simili, piene zeppe di nodi, con abilità sfuggendo alle abili Parche, arpie parsimoniose di tessere uncinetti e trine, che consegnano, in una nuova nascita, il piccolo spago morbido arrotolato da accrescere, dipanare, sciogliere. A seconda delle vite, delle esigenze, delle diverse direzioni prese. Un auto parto questo “Cosa deve fare Napoli per rimanere in equilibrio sopra un uovo” di Enrique Vargas, dove la città del Golfo è presa ad immagine e somiglianza della varia umanità che in essa vive e brulica, sciama e cammina in chilometri di vicoli e respiri. Gli uni sugli altri. In bilico su un uovo, a tentoni, trapezisti circensi che imparano il mestiere cadendo, sbagliando, cercando di mettere un passo dietro l’altro per evitare di incidere i canini sull’asfalto. E nella bilancia emotiva a pareggiare la Napoli cofanetto e cartolina sta un cesto (le mele, ammuffite o sane, della strega di Cenerentola) di anime nere come le bende che cancellano la vista del pubblico dal noir in un doppio strato di vista negata in un’avanzata di non vedenti che, mani in avanti come zombie, odorano di profumi e sentori, mischiandosi al vociare basso e fitto da mercato e vico, sotteso e sottopelle che entra nel pietrisco di vie tortuose e compresse e sconnesse. La vita, come la morte, è un carnevale-funerale balcanico, nei sotterranei dove le matasse formano costruzioni arcuate ed immaginifiche che ricordano la base della Torre Eiffel, una struttura che cresce e si autoalimenta con nuovi nodi e vite in un destino mai fisso e immutabile e prevedibile. Quello che, aprendo la mano, è circoscritto, come l’Universo prima del Big Bang, come bozzolo prima dei colori delle ali, in un microcosmo sferico, immenso ma che continua a poter rimanere in un palmo.

TRAMONTO DI UNA FOLLIA di Valerio Balestrieri

Tra commedia e dramma l'edizione di Gleijeses della farsa di Eduardo De Filippo

Ditegli Sempre di sì
Di Eduardo De Filippo
scene Paolo Calafiore
costumi Gabriella Campagna
musiche Matteo D’Amico
regia Geppy Gleijeses

Durata: 2h
TARGET - Spettatore livello AMATORE dai 25 anni in su

(intervista a cura di Valerio Balestrieri)
DRAMA
Il profilo della pazzia quindi, secondo Eduardo, non come ‘trovata’ ma come vissuto. L’intero intreccio ruota attorno ad un tratto patologico tipico dello schizofrenico, l’incapacità di lettura della metafora. Michele Murri (Geppy Gleijeses) prende tutto alla lettera e, come tradizione vuole, in una sequenza di duetti genera l’intreccio. Michele Murri è un folle, e con la lucidità di folle compie l’azione: propone matrimoni, vede vincite al lotto e mazzi di ‘biglietti da mille’, e annuncia, infine, decessi inesistenti. Di sfondo la media borghesia ben pensante, a cui nascondere la malattia mentale (per rispetto del malato o per vergogna dello stesso?), e l’amara realtà del finale: "Io sono la sorella, devo badare a lui!". Tutto è però ironico, quasi assurdo; i giochi di parole affascinano quasi, spaventano solo quando si affacciano sull’orlo della violenza agita…ma da che mondo è mondo la follia ha sempre fatto ridere, anche se non tutti.

SET – L’interno borghese è lo sfondo. La realtà è fuori, si vede da una grande finestra, ed è sottosopra, capovolta. Anche il sole cala al contrario con un tramonto che per tutto il primo atto segue l’evolversi dell’assurdo: il compiersi della malattia. E’ il tramonto della speranza, per chi ha creduto che un anno di manicomio possa cambiare le cose. Il secondo atto è in un campo di girasoli, già silenti spettatori di altre pazzie.

ACT – Gleijeses è 'Eduardiano' nell’anima, sente il testo di De Filippo e lo rivive senza esagerazioni e forzature. Il tratto somatico folle è una piccola balbuzie su alcune parole, ma in fondo sono proprio le parole il metro di visione del suo mondo. Gennaro Cannavacciuolo è Teresina (la sorella) ‘en travestì’, ma d’altra parte è una delle sua maschere; ciò avvalora l’ipotesi della familiarità della patologia e l’idea che non si diventa folli ‘per caso’.

MOOD – L’adattamento di Gleijeses ruota su tre edizioni del testo, quella televisiva del ’62, la stessa redatta da Eduardo per la ripresa e l’edizione definitiva pubblicata da Mondadori. Una messa in scena rigorosa, pacata e godibile.


(intervista a cura di Valerio Balestrieri)

Una produzione
Teatro Stabile di Calabria

“Assedio alle ceneri”

Nebbia in Val Cristiana: la Messa è finita

di Tommaso Chimenti Bencini

NAPOLI – Il ghiaccio secco, nebbia in Val Padana, riempie a piccole volute i freschi marmi della Chiesa di San Martino. In alto, sopra la Certosa a proteggere, sotto Napoli, mare e Vesuvio in una sola occhiata piena. Fa onde minimali, si spande essenziale. Humphrey Bogart che boccheggia e respira bianco. Una luce blu taglia l’altare. La marea bassissima di nuvole che gorgogliano e annaspano d’apnea s’infiamma e s’ingolfa, i flutti si mangiano a vicenda, si sovrappongono le linee distorte. Una nebbia artificiale che fa mistero e miracolo e inchino e illuminazione divina e mani giunte e segno della croce. La location prevede tale rituale. Qui, ora, oggi, disatteso. Si chiamano Prediche, tolte, lasciate, sottratte al concetto cristiano di pulpito, che diviene o rimane soltanto palco, e sotto non più fedeli a bocca aperta ma astanti spettatori, singoli e bolo compatto di idee indipendenti, ad ascoltare. La chiamano libera coscienza. A volte, intelligenza critica. Non credere ciecamente ma sentire, digerire. Più che altro, pensare. Il fumo s’alza dal basso come polvere soffiata da tavoli di sale da pranzo prima dell’arrivo dei parenti o da tappeti troppo gonfi di materia nascosta, come petali sparati e sputati in un campo di stelle alpine. Ruota su se stesso. Alla ricerca della sigaretta che non c’è. O non si vede soltanto. Non esiste più la terra dove poggiare i piedi. Siamo putti con le caviglie tranciate, nascoste ed immateriali. Pinocchi dopo il sonno al camino. Tutto è sfumato, confuso, ha perso i contorni, si è disciolto e liquefatto, come per osmosi ha preso, e si è perso in, altre forme, squagliato dentro altri corpi, solidi sfasciati, esplosi e decomposti, apertisi e sbocciati. Come rose marcite. Si vaga alla ricerca della voce. La macchina del ghiaccio secco continua nel suo rigurgito di vomito pseudo solido, a buttare morsi di rigetto, boccate a saturare l’aria di quest’odore ecclesiastico, di quest’atmosfera da confessionale, in questa cerimonia laica e buia, pece pagana. Il “dissonorato” Saverio La Ruina ha un mantello da Cavaliere di Malta, crociato nero. Ordina il pubblico- chierichetto ma senza indice puntato, che attende ossequioso ed osservante l’ostia di parole, l’assoluzione nella comunicazione. Scontro di luci. Senza sconti. Quella che taglia la navata centrale, mano di Dio a trafiggere l’attore calabrese (proprio in questi giorni è finito il suo festival a Castrovillari “Primavera dei Teatri”), a tratti legge alla maniera fascista con enfasi e punteggiatura e sintassi iperbolica da Ventennio, come costato d’icona d’altare, altre che s’accendono alle bordate che arrivano dal testo di Odifreddi (il decalogo finale parodia dei Dieci Comandamenti ha il sapore acrilico del pessimismo antropologico) e paiono fori di proiettili che fanno entrare linfa aurea e abbagliante dall’esterno, che bucano il contenitore filtrandolo, in un vento da Far West, in un cortocircuito visivo che prende ed assorbe ed incamera raggi divini proprio dal mondo esterno riproducendoli all’interno della “Casa del Signore” in un processo- procedimento inverso rispetto al concetto canonico di luogo d’emanazione della Santità e della Santificazione. Qui si dice Dio è nella vita, nelle cose, non nei precetti. Dio è in tutte le cose. Dio non c’è, ci sono le cose, ci sono le persone. Le loro intelligenze. Uno scritto “politico” che svaria da Ferrara e l’aborto, dalla Binetti a Benedetto XVI, definito “Papino” alla milanese, gli anticoncezionali e le ingerenze della Chiesa cattolica sulle faccende dello Stato. E pare piacevolmente sorprendente, in una città come Napoli, fervente e credente e praticante, l’apertura ad idee contrarie e dissimili, polemiche e critiche (vedasi Voltaire) rispetto al Padrone di casa. L’assedio alle ceneri ha il suo scalpiccio, il cloppete di zoccoli che avanza, le ceneri alle quali ritorneremo, la cenere di istituzioni sbriciolate e ritotte a brandelli miniaturizzati, la cenere polverizzata di idee retrograde.

Le Troiane al Teatro Mercadante.

Mascelle serrate vibrano tra il riso ed il pianto.
Zigomi marmorei implorano pietà.
Arti legati e gambe spezzate.
L’eco di piccoli busti mutilati.
La guerra, le donne ed i bambini. La drammatica trasversalità del topos tragico di Euripide ha permesso alla Compagnia Teatrale Europea di portare in scena questo classico travalicando qualsiasi barriere linguistica. Ogni singolo idioma viene usato per un’espressione che dovrebbe andare al di là della parola. Le ferite aperte dalla guerra sono in realtà l’elemento comunicativo rilevante di questa messa in scena. La sofferenza dei vinti e lo spaesamento grottesco dei vincitori comunicano allo spettatore più di qualsiasi regola lessicale, grammaticale o fonetica. Le donne hanno un viso impietrito dal dolore qualunque sia il loro parlare, e gli uomini manifestano invece “una deficienza” intellettuale che non può essere compensata neanche dal loro servizio di traduttori simultanei per i dialoghi tra i vari personaggi. La devastazione intima provocata della guerra è nel sostrato di tutti i monologhi delle donne. La lingua non è rilevante, sono i corpi che ci parlano, corpi di madri mutilate, di mogli violentate o di bellezze condannate per nient’altro fuorché per l’essere donna, quindi deboli, quindi vittime. La provenienza linguistica e culturale delle attrici diventa un tutt’uno con le loro sembianze, qualsiasi lingua esse pratichino quello che rimarrà impresso sono i loro occhi, disperati, rassegnati, vendicativi o mentitori, le loro bocche serrate, minacciose o tremanti. Ciò che importa nella rappresentazione non è tanto il loro personaggio quanto il loro essere donna succube d’ un sistema di uomini che si combattono per un’effimera supremazia, o che si alleano per una competizione ai limiti della goliardia. La scena ci immerge a tratti nella nostra contemporaneità, in cui lo sforzo comunicativo tra diversi fa perdere il senso di ciò che viene detto- la trappola del multilinguismo- per questo l’esercizio di stile delle traduzioni simultanee, permesso ad alcuni attori, ricorda drammaticamente la sordità di alcune conversazioni della nostra Europa che vuole dialogare pensando che la reciproca comprensione dipenda dalla lingua in cui si parla e non da quello che veramente si vuole dire. Le Troiane diretto da Annalisa Bianco e Virgilio Liberti è un sorprendente (e studiato?) esempio di quanto l’attenzione alla forma e non al contenuto abbia in sé il pericolo di indebolire la comunicazione. Infatti quando le attrici sono lasciate libere di esprimersi nelle loro lingue, il senso di ciò che dicono arriva allo spettatore anche se non si comprende il portoghese o il francese, mentre il gioco di richiamare all’ordine in italiano, o di tradurre i discorsi in due o tre lingue, fa scemare la tensione che queste energiche e toccanti interpereti sono capaci di creare. Tra tutti Evelyne El Garbi Klai, Ena Fernandez e Flavia Gusmao arrivano in scena con una dirompenza tale da rendere inutile qualsiasi ulteriore elemento esplicativo: da sole ed incomprese ai più, riescono a manifestare la forza insita in ogni donna anche davanti ai suoi carnefici.

Serenella Martufi

Cantata per lo sposalizio del Principe di San Severo

I piedi delle statue de “La Pietatella” sono una cornice.
Fasce di muscoli protese ad ascoltare.
Organismi amorfi, senza peso si aggirano gli attori.
Il Cristo Velato scandisce il tempo e delimita gli spazi.
Ubbidendo alla sua stazza imponente, mi defilo. A lui la parola.

Cristo Velato: “Sono sempre onorato quando le folle non rimangono solo ad osservare la mia sottilissima veste ma si soffermano con me per condividere qualcosa. Ieri sera, appunto, si sono riunite intorno a me un centinaio di persone, e mentre ipotizzavo sull’evento e scrutavo i loro volti, sono stato sorpreso da un rullo di tamburi, fuori dalla mia vista, accompagnati poi da una piccola orchestra. Dopo, alcune figure hanno iniziato ad agitarsi nei miei pressi. Erano attori, ovviamente, questo l’ho capito dalle poche parole con cui hanno esordito. Ho ben presto intuito che si riferivano al Principe di Sansevero ovvero Giovanni Francesco Paolo di Sangro, il mio padrone di un tempo lontano. Tutto ciò era abbastanza usuale anche se era da molto che quest’uomo non veniva ricordato. Ciò che invece mi ha stupito è stato il corpo di questi giovani e i loro volti completamente nascosti da strati di bianco che li privavano di una qualsiasi forma fisica, di una qualsiasi plasticità. Dovete capire che qui dentro io sono abituato a osservare ogni piccolo dettaglio di ogni singolo corpo, e non solo il mio, ma anche delle statue che mi sovrastano. Ci guardiamo ormai da secoli, ci compiacciamo nel poter distinguere quasi ogni cellula, ogni osso. Non ho capito se tale scelta sia stata fatta per evocare forse un’epoca, ma era comunque molto d’effetto per il contrasto con la cappella e con le forme di noi che la abitiamo. Ho avuto la sensazione di essere circondato da fantasmi, da esseri che non parlavano col corpo ma solo con le voce.
Il principe mio era stato un uomo complicato, un uomo di fede, alcuni lo hanno definito illuminato: la musica grandiosa e irriverente che ho sentito alle mie spalle in qualche modo ricordava la sua essenza e la sua vita, imprevedibile, liturgica e spiazzante. In alcuni momenti anche i giochi onomatopeici e verbosi, ritmici e ironici dei due fantasmi attori lo evocavano; però poi ho evidentemente perso qualche passaggio perché in un attimo l’evocazione si è trasformata in imitazione, credo del suo tempo e della sua epoca, e sono arrivati frammenti di napoletano, molto simpatici certamente ma un po’ usurati persino per me che sto qua dentro. La sorpresa più grande è arrivata con l’apparizione di un Gesù Cristo, un altro plagio. All’inizio ho sorriso da sotto la mia sindone, crogiolandomi in riflessioni sulle contraffazioni, ma dopo un po’ questo Cristo ha iniziato un canto che mai fino adesso mi era stato attribuito, credo fosse un rap con sottofondo orchestrale, interessante, forse un po’ eccesivo nel contesto. Voglio dire: “illuminato” non per forza deve tradursi in “spregiudicato”. Quindi verso la fine ho iniziato a perdere di vista quello che veniva raccontato: tutti quei simboli, quegli elementi e quei corpi nascosti mi hanno confuso. Mi sono lasciato andare alla musica così intrigante, variata e suggestiva. Forse sarebbe bastata lei sola a raccontare la storia del principe di San Severo che mi ha creato”.

Serenella Martufi

New Burlesque

L’irriverenza della pancia.
La carne in tutte le sue forme.
Natiche allegre.
Capezzoli danzanti.
Roteanti.

La sensualità del ventre. Non ha misura, non ha forma, non ha canoni. E’ il protagonista assoluto del New Burlesque. Senza parametri e senza regole. Ogni misura, ogni volume, ogni contorsione racconta una storia. Ogni corpo è un mondo. Ogni mondo ha i suoi costumi, i suoi abitanti, i suoi movimenti e dunque si scatena un erotismo ironico fatto di strass, di profumi, di musica, di sguardi, ciglia finte, tacchi alti, carne tremula, carne soda, carne ingorda, tatuata, intravista, spogliata. I gesti, la musica, i passi minuziosamente studiati, il ritmo incalzante che ci illude di assistere a qualcosa d’estemporaneo. Un privilegio per pochi, capitati lì per caso, compensati con una performance unica, che si esaurisce nel momento in cui noi la guardiamo. Quest’impressione però è studiata, è costruita; il pubblico si fida, lo spettatore è felice di potersi liberare per un’ora del perbenismo, del pudore, del rigore; come un bambino crede a tutte le storie che gli vengono raccontate. Crede alla Bombshell, alla Sirena, alla Obama, a Sexy Suzie, al Cowboy, alla Mafiosa. Soprattutto crede a Kitten on the Keys che guida la performance, diventa per tutta la platea una specie di matrona, un’ amica di vecchia data, con tatuaggi e capezzoli agghindati, “perché lei è così, è americana, è normale che beva limoncello dal suo reggiseno”. Forse è il fascino dell’americano, tradotto solo in parte da Marisa Laurito che gioca la parte dell’accompagnatrice, una figura a noi nota, di cui ci fidiamo, finché c’è lei a riportarci ogni tanto a casa, possiamo veramente abbandonarci a questi giochi. Forse è l’atmosfera da filmannicinquanta. Forse è l’apprensione che possa essere io la prossima ad essere coinvolta. Forse sono le battute spinte che non capiamo bene ma ci fanno ridere lo stesso. Forse è lo stupore nel vedere che una spogliarellista suoni tanto bene il pianoforte e l’ukulele. Forse sono le allusioni. Forse sono i brillantini che spruzzano dalle mutande, dai guanti, dagli occhi e dai capelli. Forse sono le posizioni, i salti, le molle, le coreografie. Forse sono i costumi, che all’inizio non mi piacciono ma poi pensandoci bene potrei provarli anch’ io quei perizomi, quei copri-capezzoli, col seno grande o senza seno, con la cellulite o i muscoli da ginnasta, bionda, bruna, quarantachili, centochili, occhi grandi, occhi piccoli, addominali, pinguedine, deltoidi, smagliature, bicipiti, curve, polpacci grandi, tacchi alti, minigonne, ballerine, calze a rete, nere, oro, rosa, fucsia. Forse perché adesso mi piace anche la mia pancia.

Serenella Martufi

Nuove Sensibilità 13/06/08

Dita deformi.
Mani impegnate.
Braccia agitate.
Una scultura di spalle.
Una vita appesa alla forza di un collo.

Cinque corpi teatrali emergenti. Cinque volontà di movimento. Cinque scelte di comunicazione.
Alla prima serata di Nuove Sensibilità lo spettatore viene travolto. Deve seguire il percorso alternato tra la sala di sopra e la sala di sotto del NuovoTeatroNuovo, cinque minuti d’intervallo, viene tutto accelerato: la decompressione, la possibilità di riflettere e di assorbire. Potrebbe essere solo una questione di allenamento, serve un pubblico con tanto fiato, un pubblico scelto, consapevole e teatralmente intelligente. Per addetti ai lavori insomma, per chi a teatro resiste, per chi capisce, per chi sa cosa c’è dietro. Interessante sicuramente, forse un po’ stonato rispetto al luogo in cui ci si trova, estraniante dal contesto, un tappeto rosso fuorviante. Le compagnie sono giovani, e dunque ci si aspetta un’ atmosfera di apertura (di umiltà) e di volontà di far conoscere il teatro anche a chi non ci è cresciuto dentro, anche a chi lo considera un posto lontano, un posto in cui non si è ben accetti, un posto che “non lo capisco”.

M. Minotaurus per la regia di Ivan Dell’Edera c’immette in un gioco di luci, di busti incastrati, di moli ingombranti che danzano dentro e fuori il mito del mostro, del labirinto e della sua donna. Lei ci si presenta gigante, accogliente ma eterea come il tempo a cui fa riferimento. Una partoriente di stoffa, poi amante squassata dall’imponenza del mostro. La scena è suggestiva con movimenti spasmodici e tonfi di carne. Un quadro violento e violentato.

L’era dei pesci per la regia di Riccardo Festa propone anch’esso un gioco di luci ed un gioco di tempo, un esterno ed un interno, un allora ed un oggi, un io, un loro, un noi. Quattro attori che quasi giocando si affidano il compito di essere narratori. Belle le voci alternate ed echeggiate, belle le dita che scrivono sulla terra, bella la lettera che ci viene raccontata. Giochi ed allusioni ci fanno ridere ci ricordano che si sta parlando anche di noi, che la storia insegna e che si ripete, forse però questo lo si sapeva già.

Cronache da un tempo isterico per la regia di Armando Pirozzi ci riporta nella sala grande, i due attori sono sul palco, tesi ed occupati prima, impazziti ed esagitati poi. L’amore acuto e reticente. L’isteria, la maniacalità, la teatralità pressante. Si ammicca dicendo “atteggiamento didascalico” e parlando della “coerenza del personaggio”, simpatico certo; tempi e spazi chiari e netti, paranoie, equivoci e toni. Regolare insomma.

Minotaurus Freak Circus per la regia di Giovanni Dispenza ci acchiappa, ci costringe a guardare: anche noi possiamo agire. Sforzarci di capire. Abbiamo il privilegio di essere turbati e rapiti. Sorpresi ammaliati, disgustati, affascinati. Il pubblico è accolto ed è considerato, è scrutato, è osservato, è provocato. La bravura e la coerenza del gruppo, gli permettono di poter sfidare lo spettatore sul percettivo e sull’intellettivo. Tutto il corpo è preso in considerazione, un organismo narrante. Ad ognuno è affidata una parte del racconto: un ruolo per gli occhi, uno per la bocca, per il collo, per le spalle, le gambe, la pancia, i piedi, le punte delle dita. Per la seconda volta nella serata ritroviamo il Minotauro; il mostro questa volta è mutevole, è intricato, leggiadro e tremendo, violento, pentito, nasce ed è carcassa, è carnefice ed ammazzato. Il presupposto del circo agevola la quantità di elementi che possono essere introdotti in scena, permette una spettacolarità acrobatica ed una fisicità finora senza pari: un disegno di corpi agili, violenti, leggeri ed eleganti. Solo la reiterazione a volte è un rischio, i movimenti, gli scambi ed i rapporti sono così tesi, chiari ed umani che non hanno bisogno di essere spiegati o sottolineati.

Il santo per la regia di Roberto Pappalardo si ferma tra la “cassa” del patrono e le uscite della suora. Un episodio ecclesiastico divertito, che però si esaurisce presto. Lasciandosi dietro una retorica un po’ scabrosa, chicchi di riso, ed allusioni al peccato ed al già conosciuto.

Serenella Martufi

England

La spina dorsale dritta la testa
Piedi sicuri. Piedi rapidi
Gli occhi sgranati.
Immobile (parla?) la bocca.

L’arte per gli uomini. L’arte di un uomo. Una vita per l’arte. L’arte nel corpo, tra i polmoni, sopra e sotto il collo. L’ estetica sfida la vita, il valore dell’una, la relatività dell’altra. I materiali, i colori, le linee dettano legge sul corpi, sul cuore, sulle ossa. England di Tim Crouch, per la regia di Carlo Cerciello presso la galleria Mimmo Scognamiglio Artecontemporanea, tra le opere di Lucio Perone: la pelle a buon mercato, un baratto di cuore, un pezzo d’arte. Un quadro di un’Inghilterra ricca e frustrata, in cui vige il viaggio, le lingue, tante e intrecciate, l’esotico che non riconosce l’umano. “ Visioni” di un mondo oltreoceano a cui ci ispiriamo, un mito che da sempre c’impone soggezione. C’è arte, “guardate!”. C’è Londra, ci sono storie di gente che conta. Il candore e le collane, gli spazi per chi è stato selezionato, arriva sicuro di capire, di avere gli strumenti, di essere adatto alla situazione, all’altezza. Ma il linguaggio schizza, fugge, cerchiamo di acchiapparlo, capire una trama, rincorrere i personaggi e le loro variabili. C’è ‘lei’, una donna ed è sicuro che è la ragazza, è bionda, gli occhi rigidi e tesi, azzurri potrebbe essere inglese. Un corpo che da statico lo vediamo malato. Mercedes Martini, evoca l’Inghilterra, nella voce, nelle mani nascoste in tasca, impassibile alla gente ad un metro di distanza. Coerente, britannica. ‘Lui’, americano multilingue, importante; sa come muoversi, sistema, assicura, gestisce le vendite e le vite nell’arte. La sua ragazza non può scivolare fuori dalla cornice vicino al Tamigi, immacolata, moderna, dinamica. Non c’è spazio per l’errore, il graffio di un quadro “Don’t touch it girl!”. Non toccare la tela, la struttura, l’impalcatura. I corpi dei personaggi celati da Daniela Ciancia, schegge di nero, di stoffa, di metallo e di viola. Un’idea, un’ispirazione che lusinga chi indossa e chi guarda, un bel clima insomma, appariamo tutti intenditori. Se l’arte esiste vuol dire che ad ogni cosa c’è soluzione, non ci sarebbe spazio per i colori se alla vita fosse concesso di irrompere, di mischiare le tempere, i toni e le tecniche. Il ragazzo non crea ma vende, sa muoversi, è lei ad essere inadeguata, un destino disorganizzato. ‘Lui’ è lì, ma non è nell’attore, Paolo Coletta, è astratto, di difficile comprensione, mette a dura prova il bianco e le linee dritte di quello spazio preciso. Esiste il disordine. Rigore in lotta perenne con l’espressione affastellata, la sofferenza nei movimenti, nell’ispirazione. I contrasti piombano addosso a chi guarda, crollano i miti, i gioielli d’oltreoceano. Perle che cadono a terra e minacciano chi vive, chi guarda, chi interpreta. Il pericolo che qualcosa inciampi, che qualcuno cada o graffi il valore di quello che è esposto. Non si tratta solo di quadri.

Serenella Martufi

Indigo

I muscoli della donna. I muscoli dell’uomo.
La luce sul corpo. La luce del corpo.
Un ventre che accoglie.
Una curva protesa.
Un volto affogato.

Il maschio e la femmina s’incontrano, si cercano, si allontanano, litigano e si baciano. La supremazia assoluta del corpo, della pelle, dei tessuti. Sei danzatori in Indigo per la coreografia di Paco Decina, in cui fasci di luce disegnano i corpi, li delineano, ed essi a loro volta sfruttano il riverbero per raccontare la loro storia, epopea d’amore, di disagio, di paura, di riluttanza ed infine di conciliazione. Lo spettatore è sequestrato dal fascino del tempo che si dilata, viene trascinato in un contesto a lui sconosciuto, cadendo prontamente nella trappola della poesia. Nell’idea che anche chi non si sta muovendo sul palco ha in sé un nucleo romantico, un nucleo artistico. I danzatori si muovono in silenzio, sembrano piume che intrecciandosi narrano la loro vicenda, che poi è anche nostra: la necessità di avere qualcuno di essere amato, di temere l’esterno. La colonna sonora con musica composta da Xavier Klaine ce lo ricorda costantemente: la voce di Ruth Rosenthal, bellissima, grida disperazione e ripete incessante il bisogno di avere qualcuno o qualcosa che giustifichi il nostro esistere, che ci dia un’appartenenza. La commozione deriva dal riconoscersi debole, impossibilitato a rimanere solo, come quelle dita, quelle mani, quelle schiene che si cercano, continuando i movimenti gli uni degli altri. La solitudine terrorizza, il baratro del singolo; ogni arto, ogni pezzetto di pelle, i capelli, tutto ha bisogno di essere echeggiato, di confidare in un proseguo. La paura della morte forse, della fine, dell’oblio. E dunque i sei danzatori si sostengono a vicenda, scrutando le difficoltà dello stare in piedi. Ognuno cerca, aspira alla verticalità ma ne è terrorizzato, perché essa sancirebbe la solitudine, l’autonomia, troppo ingombrante per un solo corpo. Quando il tempo li costringe a camminare da soli la leggerezza si perde, sembra subentrare la pazzia, l’angoscia di essere scissi, inesorabilmente soli, mentre il metronomo corre e prospetta una fine. Mille direzioni e nessuna, per l’esplorazione di un sentimento dell’ angoscia per il contatto, per l’affetto, per l’amore, forse. Ed è la ricerca intima di ognuno che più affascina in questa danza di gruppo, di compagnia. Ogni respiro calibrato sul corpo del singolo che toccando i compagni crea un polmone comune, il motore di un’orchestra, in cui non c’è inizio e non c’è fine, un cerchio da cui non si può uscire. Individualità diverse che funzionano insieme, un amalgama di peculiarità. Giunti tra loro si difendono e si sostengono, da soli capiscono e decidono.

Serenella Martufi

Nuove Sensibilità 17/06/08

Capelli selvaggi che coprono
occhi grandi, truccati, vanitosi.
Teste inclinate verso il futuro.
Bocche mute recalcitranti.
Graffi dipinti sul ventre di una donna.

Nuove Sensibilità che prendono coraggio, che evolvono, che vogliono spogliarsi. Mostrare una pelle nuova, giovane, tonica, temeraria. Alla quinta serata al Nuovoteatronuovo, si delineano varie fisionomie. Alcune compagnie hanno dei tratti somatici concreti, consapevoli di essere portatori di innovazione, liberi dall’ansia “da precedente”. Corpi nuovi che osano, rischiano, si sbilanciano, eccedono, alcuni cadono ma almeno lo fanno con dirompente onestà. Altri mantengono dei tratti di un certo teatro “adulto”, un teatro vanitoso, che gode nell’essere guardato e non capisce di tradirsi da solo: una posa che svilisce il racconto.

Di punto in bianco di Lara Guidetti apre la serata in maniera prorompente, su un palco nero sono accatastati oggetti dai colori sgargianti, irrompono tre ballerini che appaiono manovrati, manipolati, posseduti dalla musica che li accompagna. Si agitano, si contorcono, si scontrano, sembrano sempre sul punto di farsi male, di raggiungere un irreversibile climax che però tarda ad arrivare. La coreografia iniziale -le punte, protese i muscoli programmati, le espressioni plastiche- perdono incisività perché si dilatano ben oltre il prologo non arrivando però a una narrazione concreta.

Zia Rosa per la regia di Valentina Rosati vuole raccontarci dell’insoddisfazione, della violenza dei sentimenti, del disamore, del brutto dell’uomo potremmo dire. Per fare ciò c’immette in un palco cosparso di rose in cui ci attende una donna dal volto elegantissimo e curato. Per quanto le sue scarpe possano essere sporche e le rose dovremmo immaginarle sciupate, è molto difficile cogliere il laido della faccenda. Per compensare e per narrare viene introdotto il risucchio volgare di una lingua tra di denti e poi il corpo ripugnante di una donna anziana, mal concia, noiosa e un po’ deficiente. La storia procede dritta, come un corpo in prova che fa un esercizio, che mostra quello che ha imparato.

L’albero per la regia di Marco D’Amore è il primo lavoro della serata che apertamente e onestamente dichiara la sua giovinezza. Il testo e la drammaturgia originali di Francesco Ghiaccio sono di grande innovazione rispetto agli altri lavori, una sperimentazione teatrale completa dall’ideazione alla realizzazione. Questa autenticità restituisce allo spettatore forte emozione e commozione. Storia di due fratelli separati “dalle stagioni e dai paesi lontani” che si rincontrano dopo averci narrato dei loro rispettivi piccoli, durissimi mondi. Gaetano Colella e Marco D’ Amore seppure appaiono nascosti da miriadi di bolle di sapone, sono scevri da orpelli e non usano escamotage di alcun genere. I due attori emergono con talento e tenacia vivendo visceralmente l’infanzia, le sconfitte, le illusioni e le gioie dei due fratelli di cui ci parlano. Teatro nuovo, giovane, sincero e consapevole. Ricordano un nipote che ritrova i suoi tratti somatici nella foto in bianco e nero del nonno nei suoi anni migliori. Un passato che prende bellezza sulla guance distese del nuovo.

Family Show –Acquari di famiglia- per la regia di Lorenzo Facchinelli ci riporta tra le dinamiche delle scene contemporanee. Ci sono molte idee spiegate sui corpi dei personaggi di questa famiglia spagnola, borghese, frustrata e “volgare”. Ogni fisionomia è disegnata con chiarezza e professionalità. Anche lo spazio è gestito bene e funzionalmente al racconto. Ci sono tutti gli elementi, persino la trovata conclusiva che muta i volti degli uomini in pesci. Purtroppo però manca l’imperfezione, il tentativo di distaccarsi, di scegliere una strada poco battuta.

Affascinata (Ammaliàta) composta e diretta da Giuseppe L. Bonifati è il secondo lavoro della serata che stupisce. L’ Orchestra popolare di quattro voci e tre seggiole mette in scena il mondo popolare del meridione, una mescolanza di storie, riti e credenze sostenute da un intreccio linguistico a cui è difficile (e sbagliato) dare dei confini. Il racconto è armonizzato da una partitura per corpi e tamorre che non si spartiscono ruoli distinti, ma danno voce a una storia “qualunque” incentrata sul malocchio. Il gruppo riesce a portare in scena una esemplificazione dell’ossimoro tradizione-innovazione immettendo elementi di forte contemporaneità nella semiotica del popolare. Il corpo di ciascun elemento lavora in funzione della pelle, dell’odore, del suono degli altri. Le fisicità distinte riconoscibili di ognuno danno spessore al lavoro orchestrale che si sviluppa in maniera pienamente teatrale in quanto lavora tanto su un’armonia d’immagini quanto su quella sonora.

Serenella Martufi

P.O.M.P.E.I

Scusate se nasco.
Scusate se ho occhi.
Scusate se dai miei movimenti vi arriva un odore, un qualcosa di me.
Scusate me.
Scusate.

Come dei feti catapultati nella realtà sensoriale, Alessandro Bernardeschi, Antonio Montanile e Mauro Paccagnella invadono l’aria di chi sta lì immobile seduto a guardare. Si scusano per questa intromissione, non dipende da loro ma dalla danza. Non si tratta solo di punte tese, muscoli affusolati, mascelle rigide e controllate. La coreografia di Caterina Sagna è protesa verso lo studio dell’immagine, di come essa possa essere fuorviante, di come ogni archetipo nasconda un mondo d’imperfezioni e dunque di vita. Il candore del ballerino, della statua, del pulito diventa un falso mito da risolvere. Intraprendere una rivoluzione contro questo bianco che impone una non-esistenza, una perdita di sensibilità. Un danzatore sa anche parlare, può decidere ed interagire. Il pubblico deve vedere che per essere intonsi si deve soffrire, si deve essere disposti a rinunciare ad una propria essenza, alla propria fisionomia. Bisogna ribellarsi a questo soffocante pulizia: il corpo deve riprendersi la propria essenza. Ogni osso, ogni lembo di pelle, ogni pelo creano un tutt’uno pulsante padrone di ogni movimento. Un corpo non ha bisogno di musica per manifestare la propria energia e la propria bravura. I danzatori incalzano il pubblico a proteggere ognuno la propria vivacità. Dobbiamo tutti trovare una maniera per tramandare nel tempo ciò che eravamo, ciò che sentivamo sotto le unghie. Ci istigano a percepire quanto la rigidità sia innaturale, sia una dittatura voluta dal bianco in persona per annientare le differenze, le stonature, le bellezze imperfette. Alcuni gesti convulsi, violenti, reiterati dei tre danzatori mostrano quanto sia difficile dominare autonomamente il proprio corpo, quanto sia necessario avere qualcuno a fianco che ci possa aiutare e sostenere. Forse è per questo che alcuni optano per il candore, per essere controllati e lasciare a terzi la responsabilità del proprio essere. Se è qualcun altro a controllare la mia mano, non potrò essere biasimato se essa atterrerà sul volto di chi mi sta vicino o se si dovesse intromettere nella sua intimità. C’è chi vende la propria autonomia per la tranquillità, c’è anche chi se la vede sottratta, i ballerini, i gessi dei reperti archeologici ad esempio. Qui al Teatro Instabile invece si lavora per rivalutare la nostra organicità. Siamo essere viventi, dunque non possiamo essere mai perfetti, neanche se travolti da ceneri e lapilli e poi colati nel gesso. Siamo sporchi, impuri, e per fortuna imperfetti. Abilmente i tre distruggono canoni e credenze davanti ai nostri occhi spiegandoci perché, illustrando con riso e con enfasi che c’è un’alternativa. Essere amorfi non è un pregio. Nella teca in cui si verrà rinchiusi quando il vulcano sarà, dobbiamo riuscire a portarci la nostra energia, continuare a farla pulsare. Bisogna fottere il tempo, organizzarsi e insistere sul fatto che esistiamo per davvero. Lo sentiamo.

Serenella Martufi