venerdì 27 giugno 2008

Medea burkinabè

È riuscito a far parlare persino gli aerei di passaggio il regista Jean-Louis Martinelli; sfrecciando a bassa quota sul teatro a cielo aperto del Reale Albergo dei Poveri davano lampi di sospensione e mistero alla furia di Medea-Odile Sankara, interrompendo i canti salmodiati della tradizione Bambara sull’abbandono, l’amore per i figli e la durezza dell’esilio, imponendo il fermo immagine ai sorrisi finti di un Giasone-fotomodello in doppiopetto grigio che rinnega sua moglie per il jet-set omologato e convenzionale di re Creonte. Nessun effetto speciale, nessuna amplificazione ulteriore, solo il rumore degli aerei veri (ipertecnologico, quotidiano e alieno, celeste e terrestre allo stesso tempo) che appena dopo il decollo prendevano quota verso il buio, entrando a loro insaputa nello spazio scenico di una tragedia scritta da Euripide, tradotta in lingua occitana da Max Rouquette e travasata di nuovo nel francese attraverso il filtro di un dialetto burkinabè. Suoni quotidiani e alieni fanno da colonna sonora a Medea-Odile, terribile quando fissa un punto mentre la mano vaga persa lungo il bordo della veste blu chiazzata di scuro, il ricordo del mare e della salsedine che porta ancora cucita addosso, residuo del tradimento e della strage dei suoi per amore di un uomo che la sta trattando come un ferro vecchio. E di ferri vecchi, impalcature rugginose, secchi di plastica sporchi è piena la scenografia, fatta soprattutto di persone. “Se vuoi andare veloce vai da solo. Se vuoi andare lontano vai insieme agli altri” dice un proverbio africano; il coro è parte del racconto perché la persona non esiste se non in una trama di rapporti, l’amore uomo-donna è talmente forte e pieno di promesse da distruggere tutto quando è trascinato del fango. Martinelli racconta una furia impossibile da controllare attraverso i cardini della cultura tradizionale africana, come il rapporto con l’acqua o il fuoco, prezioso per disinfettare e proteggere; elementi banali e scontati per noi, fattori che decidono tra la vita e la morte in Burkina Faso, dove l’acqua non c’è e quando c’è può essere contaminata, può far ammalare o salvare un villaggio intero. Il bidone arrugginito colmo di pioggia dentro cui parla Odile-Medea non serve solo ad amplificare la voce, ma racconta anche la nostalgia per l’infinito di un Paese che non ha accesso al mare. Dell’uccisione dei bambini resta l’abluzione rituale e un segno di gesso bianco in mezzo al petto, perché una regina che muore deve essere accompagnata da altre morti; a Lagos, nella vicina Nigeria, si dice che il corpo del sovrano deve essere fasciato di cadaveri, altre sette salme devono impedirgli di toccare le pareti della sepoltura. Per questo Medea, morta dentro, ha bisogno del cadavere dei figli.

Silvia Guidi, lettera22

Senza sangue

“Senza sangue”, ovvero l’amore ai tempi di Twin Peaks, dove il colera del male e della crudeltà viene disinfettato dall’algida perfezione della tecnica. O anche la parabola di Lolita al contrario, visto che il libro di Baricco è un pretesto per raccontare una storia dove il killer (nome di battaglia Tito, vent’anni) riscopre il suo vero nome (un nome da campesinos, Pedro Cantos), e la voglia di ricominciare grazie allo sguardo di una ragazzina, Nina Roca, ritrovata dopo trent’anni. Una ragazzina che lo guarda tranquilla dal fondo di una botola, “con le labbra ben disegnate, la camicetta bianca e la gonna stirata, pulita e tiepida come un animaletto nella tana”; dovrebbe ucciderla perché è l’unica testimone dell’assassinio di suo padre e di suo fratello, ma non lo farà. Sarà questa “l’unica cosa pulita da cui ripartire” in una vita sbagliata.

Juan Carlos Zagal ha scelto di raccontare la storia di Nina con i colori freddi e iperrealisti dei quadri di Hopper e dei film di David Lynch, gli interni di caffetterie semivuote o affollate di avventori-spettri che virano sul rosso magenta, i boschi ottenuti dalla trasparenza di fotografie sovraesposte in tutti i toni dell’azzurro. Nina è una piccola Laura Palmer televisiva annegata in una vita non sua, avvolta in un cellophane trasparente di menzogne; a distanza di trent’anni, una donna con il viso pallido, i capelli platinati, la voce incolore e i movimenti legati da un rancore represso troppo a lungo, una “donna chiocciola” che tiene il suo vero io ben nascosto al riparo dall’esterno.

In “Senza sangue” l’effetto speciale, la sovrapposizione tra videografica e attori non è più un optional, ma è uno spazio da abitare. Salinas, Tito ed El Gurre (i tre “cattivi” che appaiono sullo schermo-palcoscenico all’inizio della piéce) camminano in un cartone animato abitato dai fantasmi, con sulla faccia le maschere da fumetto di Sin City, la città del male del famoso e copiatissimo film di Frank Miller. Il momento dell’ omicidio è solo disegnato: uno schizzo di sangue rosso su nero, versato sullo schermo. Potrebbero spuntare in ogni momento Benicio Del Toro o Clive Owen vestito da vendicatore solitario, tanto le immagini ricordano i fumetti della Dark Horse Comics, se la storia del Paese di origine della compagnia non facesse sentire la sua presenza: il Cile con tutto il suo bagaglio di ferite da guerra civile, i suoi slogan vuoti (come la necessità di “arare la storia con il sangue versato” e l’apologia della “percentuale di strage necessaria”), e il terrore per tutto ciò che è “roto” (volgare, dozzinale, banale) tipico degli ambienti artistici di Santiago, che porta all’estremo la sperimentazione hi-tech.

Silvia Guidi, lettera22

Storm/O al Reale Albergo dei Poveri

Dal nero dell’inizio non si distingue molto: il bianco che vibra al centro della scena è un seme di mela che si spacca per crescere, o una cellula che si divide in un embrione. Ma lo spazio bianco che pulsa e si muove sono anche due mani che intrecciano un tessuto, e le pinze incandescenti che stanno dando forma a un vaso trasparente di vetro soffiato. Dal buio, intanto, la musica sta dicendo emozioni più grandi; è sempre nascita, respiro, sguardo che si allarga, occhi che cercano qualcosa, volti ad uno spazio interno. Giuliana si serve di tutto: il respiro corto e veloce di una salita, le voci dei bambini che imparano a leggere, gli accordi della viola barocca e le architetture invisibili delle Follie di Spagna. Anche del timbro ricco e rassicurante della voce di Claudio Capone, il doppiatore di Beautiful, (è lui l’inventore della tenerezza lenta e trasognata di Ronn Moss, dell’entusiasmo giovane di Luke Skywalker in Guerre Stellari, dell’ironia lieve di Oscar Wilde e delle risate yankee di Don Johnson in Miami Vice). È sempre lui, la celeberrima voce fuoricampo di Super Quark, che spiega serenamente l’autocannibalismo degli alberi d’inverno, il macerarsi delle foglie che porterà sostanze chimiche preziose attraverso le radici appena risalirà la temperatura e il sole sarà meno basso all’orizzonte, la fatica segreta dei germogli che si nascondono sotto la corteccia, le mille venature invisibili della clorofilla, mentre Giuliana “indossa” una parte di bosco e danza lentissima e concentrata come una combattente ninja impegnata in un rito, nascosta in un vestito nero opaco che assorbe totalmente la luce, sotto una voliera-microcosmo pulsante di vita vera ma sognata, come in un quadro di Hyeronimous Bosch. “In un istante, l’incanto del mondo rinato agli occhi” c’è scritto sul foglietto fucsia e bianco che racconta Storm/O prima di passare davanti al grande quadrato nero che lo contiene. “Come succede in teatro, quando si apre la scena, sempre dopo l’inizio della musica. Restano aperte tutte le domande intorno a questa meraviglia”. Perché la musica dice emozioni più grandi; è sempre nascita, respiro, sguardo che si allarga, occhi che cercano qualcosa, volti ad uno spazio interno, e Giuliana ha trovato le immagini giuste per dirlo. Dal nero dell’inizio non si distingue molto: il bianco che vibra al centro della scena è un seme di mela che si spacca per crescere, o una cellula che si divide in un embrione. Ma lo spazio bianco che pulsa e si muove sono anche due mani che intrecciano un tessuto, e le pinze incandescenti che stanno dando forma a un vaso trasparente di vetro soffiato. Dal buio, intanto, la musica sta dicendo emozioni più grandi; è sempre nascita, respiro, sguardo che si allarga, occhi che cercano qualcosa, volti ad uno spazio interno. Giuliana si serve di tutto: il respiro corto e veloce di una salita, le voci dei bambini che imparano a leggere, gli accordi della viola barocca e le architetture invisibili delle Follie di Spagna. Anche del timbro ricco e rassicurante della voce di Claudio Capone, il doppiatore di Beautiful, (è lui l’inventore della tenerezza lenta e trasognata di Ronn Moss, dell’entusiasmo giovane di Luke Skywalker in Guerre Stellari, dell’ironia lieve di Oscar Wilde e delle risate yankee di Don Johnson in Miami Vice). È sempre lui, la celeberrima voce fuoricampo di Super Quark, che spiega serenamente l’autocannibalismo degli alberi d’inverno, il macerarsi delle foglie che porterà sostanze chimiche preziose attraverso le radici appena risalirà la temperatura e il sole sarà meno basso all’orizzonte, la fatica segreta dei germogli che si nascondono sotto la corteccia, le mille venature invisibili della clorofilla, mentre Giuliana “indossa” una parte di bosco e danza lentissima e concentrata come una combattente ninja impegnata in un rito, nascosta in un vestito nero opaco che assorbe totalmente la luce, sotto una voliera-microcosmo pulsante di vita vera ma sognata, come in un quadro di Hyeronimous Bosch. “In un istante, l’incanto del mondo rinato agli occhi” c’è scritto sul foglietto fucsia e bianco che racconta Storm/O prima di passare davanti al grande quadrato nero che lo contiene. “Come succede in teatro, quando si apre la scena, sempre dopo l’inizio della musica. Restano aperte tutte le domande intorno a questa meraviglia”. Perché la musica dice emozioni più grandi; è sempre nascita, respiro, sguardo che si allarga, occhi che cercano qualcosa, volti ad uno spazio interno, e Giuliana ha trovato le immagini giuste per dirlo.

Silvia Guidi, lettera22

Ceneri/ 2

Il giorno dispari di Lello Voce

"Non si preoccupino eccessivamente le signorine in sala, ma io in questo momento le sto toccando. Con la voce, ovviamente, ma la voce è qualcosa di solido, che raggiunge e attraversa il corpo. Se urlo il vetro inizia a tremare, la voce è materia e io la voglio usare così". La parola di Lello Voce fa quello che dice, incomincia a colare lentamente fascino e menare fendenti sulle educate teste pensanti di chi ascolta, sia nelle stanze di Palazzo Reale, nella linda e luminosa presentazione del mattino, sia nell'oscurità fumosa del Night Barocco della Certosa di San Martino, con la sua luce malata e angosciata, assediato dalle ceneri, ma soprattutto dalle colate laviche di un predicatore innamorato delle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Sì, proprio Ugo Foscolo, quello degli eterni temi nelle classi di liceo, un big misconosciuto perchè visto sempre e solo attraverso strati multipli di letture scolastiche banali.
La sfida è parlare di quanto siamo tutti, profondamente, intensamente perfidi, senza nessuna pietà, soprattutto per noi stessi, uniti dalla "fratellanza della ferocia condivisa". "E sempre accadeva che un Corpo cadesse spossato e gli altri, scoperta la fratellanza della ferocia condivisa, gli si facevano intorno e lo finivano, e poi, senza che ancora una sola parola fosse pronunciata, lo sbranavano e se ne cibavano". Questo all'inizio dei tempi, nell'era precedente al ferro e al fuoco, ma ancora adesso: impegnati a mangiarci l'un l'altro, non riusciamo a parlare finchè la bocca è piena di brandelli, finchè prevale la logica del branco. Che poi il fagocitarsi si compia per opera di clave e zanne, attraverso uno stupro di gruppo o mediante una lenta opera di ricatto morale o materiale, poco cambia. Siamo comunque vittima di un prosciugamento di ossigeno, e di voglia di vivere, attraverso un'opera al nero al contrario, un'alchimia che riduce tutto in cenere invece di trovare l'oro della pietra filosofale. Vietato chiamarlo cannibale (si offenderebbe moltissimo) proprio perché lo è davvero, e disposto a condividere i suoi eroici furori, e le sue poche certezze: "Il poeta in fondo è un lavoro del cazzo, stare da solo mi dà angoscia, e siamo da soli non serviamo a niente. Pubblico non è una brutta parola, sono un animale sociale, non un librettista. E voi, fatela la fatica di uscire, anche solo per andare al cinema, non rassegnatevi alla solita cassetta nel lettore dvd sul divano di casa. Da soli, prima, durante e dopo" Ce l'ha con tutti, Voce con la v maiuscola, anche con i grandi romanzi, golosamenti portati a casa nel cellophane da chi vuole solo annusare il profumo di un'altra vita e di un'altra solitudine, e non ce la fa a rischiare davvero una vita propria. Abbasso la solitudine, l'autoerotismo (intellettuale e non), rischiate, abbiate la forza di essere vivi.







Silvia Guidi, lettera22

Ceneri/1

Padre Lubrano,

il Quentin Tarantino

del Seicento


Il grande inquisitore ha il sorriso docile e inerme di Silvio Orlando, ingessato da un'enorme gorgiera bianca a fisarmonica, infagottato in un pulpito gonfio di stoffe pesanti e broccato, ma il pubblico non ne accorge subito; prima c'è il buio morbido della Certosa di San Martino, la luce polverosa dei faretti che spinge gli sguardi rasoterra e li guida verso le volute dense di fumo che disegnano spirali e d ellissi barocche in movimento. Esattamente come i girali delle decorazioni alle pareti. Il fumo è la dimensione visiva della voce che abbraccia gli ascoltatori e si dissolve, avvolge e rivela, è l'immagine stessa del respiro che penetra nei polmoni e scompare, delle architetture debordanti delle frasi, appoggiate al basso ostinato della musica, all'angoscia della viola da gamba che più di tutti gli strumenti è in grado di clonare la voce umana. La chiesa non c'è più, o meglio, diventa per tre quarti d'ora qualcos'altro, probabilmente quello che doveva essere quando è stata pensata: una culla di buio scaldata dal bagliore del legno dorato al tremare delle candele, al guizzo incerto delle lampade, riccioli di marmo candido che invadono il vuoto a ondate di schiuma. L'”Inventario dei Beni temporali scritti nella Polvere”, il primo spettacolo dell'Assedio delle ceneri è davvero scritto dalla voce che parla dal pulpito nella luce polverosa che striscia lungo le pareti, stretta dal collare bianco a fisarmonica visto in mille ritratti dell'epoca a sfondo nero, è un tuffo nel terrore di morire che mescola ironia e danze macabre, delicatezze d'amore e nostalgie di feste e carnevali in piazza a descrizioni di cadaveri straziati dai cani, di morti bizzarre e ossessioni inverosimili, di ultime parole famose di potenti, regine e sovrani cancellati dalla tomba. Un Quentin Tarantino di fine Seicento, padre Giacomo Lubrano, regista abilissimo di scenari pulp e tempi comici perfettamente accordati. A fine spettacolo la gorgiera bianca è una barriera antisudore intrisa di fatica; Silvio Orlando ha ancora la forza di sorridere spiegando che non ha voluto spingere l'acceleratore sulla musica facile delle parole ma sul ragionamento, da un inizio innocente e un finale di sottile perfidia che, ironia della sorte, ha colpito lo stesso autore delle prediche. Nella realtà, non nella finzione: per uno strano contrappasso Giacomo Lubrano da vecchio è diventato balbuziente, Dio gli ha chiesto la povertà estrema, staccarsi da quel dono di affascinare le folle che lo aveva portato in tournèe in tutta Italia e oltre, in mille paesi dell'allora mondo conosciuto, fino a Malta. Il pubblico se ne va, spossato e felice, con in mente il ricordo del Depardieu-Marin Marais disfatto dal successo e dai soldi (indimenticabile per chi ha visto “Tutte le mattine del mondo” di Alain Resnais), annoiato dal lusso di Versailles, che ha venduto l'anima “per un po' di zucchero e qualche luigi”.

Silvia Guidi, lettera22

Ripescaggi: Tanto amor desperdiçado al Maschio Angioino


Teatro batte calcio. Ma solo ai rigori


Conoscere può dare una gioia più intensa dell’amore; parola del re di Navarra, che si è lasciato sedurre dal fascino discreto della misoginia. E se i sentimenti sono ridicoli residui adolescenziali da cancellare, come le cicatrici dell’acne che si nascondono benissimo sotto una seriosa barba da autorevole uomo di cultura, il modo migliore per provarlo è convincere i suoi migliori amici a corte a vivere allo stesso modo. Nessun bisogno del mondo esterno per tre anni, donne comprese, il paradiso può essere fabbricato in un recinto di libri, regole e gerarchie consolidate. Se non ci fosse quella seccatura di politica estera dell’Aquitania da gestire, e una delegazione di nobildonne francesi belle e terribilmente intelligenti in arrivo, re Misogino e i suoi potrebbero continuare a sentirsi eroici, coerenti, orgogliosi di se stessi. Ma qualcosa va storto, cresce l’assedio di una “molesta malinconia color sabbia” (sabbia vera che impolvera gli austeri completi scuri dei quattro sedicenti saggi) e Lord Biron è il primo ad accorgersi che “la carne è triste e ho letto tutti i libri” come diceva il poeta, gli schemi mentali, le frasi fatte, i buoni propositi non reggono davanti alle tonnellate di imprevisti che la vita ti getta in faccia tutti i giorni, il re è nudo in senso (quasi) letterale quando i tacchi a spillo e le frasi beffarde di una principessa qualsiasi bastano a lasciargli scritte sanguinose tatuate sul petto e sulle braccia, per il banale motivo che l’amore non si sceglie, succede. I giovin signori di Navarra parlano davvero in portoghese, le quattro svampite irresistibili in un francese fatto di sensiblerie e arroganza provocante che più sexy di così non si potrebbe, un modo geniale per esprimere il meccanismo di una seduzione raffinata: la lingua straniera parlata dalla persona amata acquista un fascino strano, è un nuovo spicchio di mondo che si svela attraverso le parole. Troppo bravi, i ragazzi allenati a duellare nell’arena dei doppi sensi di Shakespeare da Emmanuel Demarcy-Mota: cercano di valorizzare tutto, di non perdere un grammo del testo originale, ma forse sarebbe meglio non aver paura di tagliare quello che lo spettatore di oggi non riesce in alcun modo a capire. Troppo bravi, i ragazzi di Demarcy-Mota, e concentratissimi, nonostante il vuoto irreale provocato dalla partita Italia-Spagna in corso e i bisbigli patriottici tra il pubblico (perché non entra Del Piero, perché è entrato così tardi), nonostante un’invasione molesta di formiche volanti. Per una sera, teatro batte calcio, anche se solo ai rigori.

Silvia Guidi, lettera22

Rivieccio one man show

Riecco il caro vecchio avanspettacolo, il fine dicitore alla Nino Taranto, il cabaret di prima classe che spazia dalla macchietta alla sociologia. Stavolta il domatore di pubblico si chiama Gino Rivieccio e non David Letterman, ma lo studio millimetrico dei tempi comici e delle reazioni del pubblico in sala è lo stesso. Trent'anni di esperienza non bastano per diventare in automatico il rabdomante della risata altrui, serve una gavetta composita e multilivello lombardo-partenopea-pugliese che unisce il lavoro con i Gufi di Nanni Svampa negli scantinati di Milano al blues alle cime di rapa e il Rocco e Rollo di Tony Santagata. Non basta neanche il giro del mondo in ottanta dialetti e il fascino indiscreto della parodia: per salire nell'Olimpo del Cabaret Aulico (così lo chiama Rivieccio citando autori, maestri, mostri sacri e compagni di strada) serve anche la fenomenologia del cellulare, la critica della ragion pratica del navigatore satellitare, oltre ad un'ampia e variegata casistica che potremmo indicare come "antropologia della cena fuori". In mezzo ai tavoli il cameriere-sociologo ruba gesti e frasi fatte mentre assegna i tavoli e porta il conto e poi disegna i tipi da commedia dell'arte che popolano ristoranti e pizzerie: il mossiere, il magnanimo, l'indeciso, il lamentoso cronico, la moglie risentita, l'inappetente che ruba dai piatti degli altri, il bimbo isterico. C'è pure una specie di grammelot itagliese (il pedigree è quello del fine dicitore, come dicevamo, l'acrobata del monologo impossibile e il giocoliere delle sillabe; non a caso lo spettacolo d'esordio di Gino ricordava la boccata di ossigeno liberatoria finale, "Ciak, si aspira"). Importante il contesto, la scatola di impalcature metalliche e cartongesso che si riempie di parole, musica, sindaci, signore che sperano nel rinfresco postdebutto, applausi a raffica: il teatro della Villa Comunale è foderato all'esterno da foto d'epoca di Raffaele Viviani, Edoardo Scarpetta, Pupella Maggio e i fratelli De Filippo, Isso, Issa e O' Malamente (un Viviani giovanissimo, con una faccia da schiaffi unica ed inimitabile) provenienti dagli archivi teatrali napoletani, i padri della patria del palcoscenico locale. Torna anche l'occhio di bue dell' one man show vecchio stile, e la singer nera che improvvisa voli di jazz sui classici della canzone napoletana (proprio i classici classici, anche Era de Maggio, anche le tenere ruffianerie di Aurelio Fierro) per dire con i colori della voce che ci sono dei giganti a cui si può appoggiare qualsiasi sperimentazione, anche nella musica.

Silvia Guidi, lettera22

Tempio/Scempio

Temple

Di Natalie Hennedige, Singapore Arts festival

Sette personaggi in cerca di cant(autore): l’eroina dei manga perfezionista, allenatissima, in guantoni e latex nero, preoccupata solo di vincere sempre e comunque, la sorella saggia, premurosa e adorante ma con l’ossessione del controllo, la sorella Barbie-lunghi-capelli lamentosa e igienista, superfemminile per nascondere un’antiestetica protesi alla gamba, atterrita dalla polvere e dagli uomini, la mogliettina vestita da collegiale giapponese con la stessa divisa bicolore di Mimì Ayuhara, il marito distratto, fedifrago e fondamentalmente grezzo. E infine gli ultimi due, i gemelli diversi in calzamaglia: la fotocopia dell’uomo-tigre dei cartoni animati con un sospensorio da Mai dire Banzai e i capelli sparati, e un ex campione di wrestling peso piuma che si nasconde il viso dietro una maschera da scherma. Il tutto a porte chiuse, un inferno portatile formato videogioco, con i dialoghi presi dalla rubrica delle lettere dei rotocalchi rosa per ragazzine. Sbam, Game Over, You are the ruler, 100mila punti di bonus conquistati. Ma anche: Riuscirò a farmi notare anche se ho i denti storti? Potrò fare qualcosa interessante nella vita se ho a disposizione solo questo misero corpo, un banale taglio di capelli e qualche ordinaria circostanza a disposizione, come tutti? Le domande che affiorano bisogna ignorarle per sopravvivere, la salvezza è l’allenamento costante, la forma perfetta, l’autostima autoindotta, lo spirito di squadra, la fierezza dell’appartenere al piccolo gruppo di quelli che ce l’hanno fatta. Dimenticare è l’antidoto, cancellare ed estromettere tutto ciò che non rientra nel business plan chiavi in mano minimo dolore, massimi risultati. Ma il gruppo dei naufraghi (perché all’esterno il mondo sta per finire, o è già finito), il gruppo dei Lost auto reclusi in un bunker-palestra è sempre sotto assedio: gli elicotteri dal cielo, col loro rumore meccanico, molesto, e le raffiche continue di luce e il vortice dello spostamento d’aria, e da terra squadroni di miss, majorettes e reginette di bellezza con la testa di coccodrillo, con le tagliole della loro superiorità estetica esibita al posto della bocca. E poi ci sono pur sempre “quelli là fuori”, forse zombie, forse mutanti, forse persone normalissime che chiedono solo di essere guardate in faccia per quello che sono e non viste solo come birilli da abbattere, ma di più non è dato sapere. Le donne in sala capiscono, gli uomini (forse) un po’ meno. L’inizio della fine, lo smascheramento della finta solidarietà tra sopravvissuti è rispondersi fischi per fiaschi, non ascoltare facendo finta di essere gentili, tradirsi per noia. Come succede alla coppia lui/lei che litiga cantando come in un musical di Bollywood in versione asiatica: “Se solo pregassi per me”, grida il marito alla moglie-Mimì Ayuhara, “Se solo potessimo trascinarci l’un altro, aiutarci a salire in paradiso insieme”.

Silvia Guidi, lettera22

“Pantagruel”

IL CORPO DI CROSTA. AMEN.


di Tommaso Chimenti Bencini


NAPOLI – Nella voracità domestica e bulimica un gruppo di sacerdoti-chirurghi con grembiule da chef, l’abbuffarsi di vita, per rigenerarla, ha il sapore di laboratorio con dottori matti, il tocco esotico di Dracula nella costruzione dell’uomo nuovo, di novelli Frankenstein. Questo “Pantagruel”, firmato da Silviu Purcarete, viene infatti dalla Romania. Mense imbandite da “Ultima Cena”, con troppi apostoli, allievi da “Classe morta”, che diventano tavoli operatori e l’autopsia è uno smembramento intestinale che porta in superficie, uno svuotamento come da dentro la pancia dello squalo collodiano, metraggi di colon in versione salsiccia, cervelli-cavolo lesso, testicoli-uova. Tolti, sottratti, mangiati con gusto davanti agli ex possessori senza anestesia in un contrappasso dantesco. Tutto viene accuratamente assaggiato in una sorta di cannibalismo scientifico come se fossero dentro agli studi sui cadaveri di Leonardo da Vinci. L’humour nero, macabro e viscerale da Hansel e Gretel pervade tutta la piece, fotografica ed estetizzante, che alterna momenti di placidità a tratti di animalità confusionaria, accompagnata da un pifferaio magico che fa raggiungere l’orgasmo, piacevole e doloroso, alle fanciulle più sensibili, soverchiati da coreografie in stile Fantasia blasfema con centinaia di cucchiai, saltellanti e scintillanti come pesce azzurro ancora guizzante sulla banchina, usati come batteria, armi, scettri o calamite. E’ un processo post mortem, il passo prima della reincarnazione. La magia porta alla trance di litanie e liturgie di una giungla urlante di uccelli, cavalli al galoppo, sbraiti di scimmie e ruggiti di felini, di rituali raccapriccianti di questa setta miracolosa, di questo manipolo di studiosi maledetti in cripta, da “Nome della rosa”, rinchiusi in questo scantinato sotterraneo, in questo cimitero offuscato agli occhi dei vivi, prelati da messe nere, ministri di un culto pagano, cannibale e feroce che loda l’obitorio come altare fino alla creazione, divina e terrena, sovrannaturale e concreta, intenti nella realizzazione di un uomo, prima mummificato e “incompiuto” nell’accezione michelangiolesca, un essere nuovo, buono da informare come il pane da spezzare e deglutire come “corpo di Cristo”.

Adonis&Valduga poetry show

Secondo gli addetti ai lavori sarà il prossimo Premio Nobel, e dopo averlo ascoltato al Grenoble, o in mezzo al pubblico durante la Conversazione a Palazzo Reale con la collega Patrizia Valduga (in versione Crudelia Demon, perfida e dolcissima, eccessiva e fragile come al solito, porcellana tostissima sotto i veli da bambola di chiffon nero, che gli si è inginocchiata davanti per esprimere in modo scenografico, chiaro ed esplicito tutta la sua stima), risulta chiaro il perché. Adonis è il più grande poeta arabo vivente, ma soprattutto un poeta vero, un uomo che ha investito tempo, immaginazione, fatica, anni di studio, anni di carcere ingiusto nel suo Paese per difendere la dignità delle parole. Le sue opere sono un antidoto alla lamentazione quotidiana che ci fa vivere di meno, una cura urto sia contro il "noi" violento e ideologico che soffoca la libera espressione in tanti Paesi del mondo arabo, sia contro l'individualismo miope e slegato dal contesto che inaridisce la società occidentale. Non ha tempo di parlare di dialogo, perchè il dialogo lo vive tutti giorni, a Napoli, Beirut, Damasco o Parigi. Perché"l'io non esiste se non in rapporto con l’altro, anche quando vado verso me stesso devo passare dall’altro, l’altro è più di una parte nel dialogo, fa parte degli elementi che costituiscono l’io. Il noi dell’arte è diversificato, molteplice, ma non è mai in contrasto con qualcosa. Napoli è un esempio vivente di questo: mille strati di culture diverse in un unico luogo, la tomba di Virgilio accanto a quella di Leopardi, una continuità che mescola passato, presente e futuro, una forma di dialogo attraverso lo spazio e il tempo". Con l'arte si può parlare, ripete Adonis, conoscere i popoli attraverso l’arte è una forma di intelligenza che assomiglia all’amore. Anche in "Alberi adagiati sulle luce", il testo che il poeta siriano ha scritto per il Festival, Leopardi, Masaniello, Garibaldi, Marinetti, gli studenti incrociati per strada o le donne che passeggiano per Via Toledo sono un pretesto per svelare la profonda positività, la luce misteriosa nascosta nel fondo delle cose. Ma l'arte vera è scomoda, perché rivela l'uomo a se stesso, e difficile da rintracciare, perchè seppellita sotto tonnellate di mediocrità convenzionale. "La letteratura è diventata un prodotto industriale, una merce come un’altra, quindi ha bisogno di un mercato, non è più importante il valore ma deve rispondere alle esigenze delle masse e questo non si può combattere che in un modo, creando opere d’arte molto, molto belle. E’ questo l’unico modo concreto per contrastare questa tendenza, non si possono imporre divieti o limiti alla produzione intellettuale. La produzione ottima è quella che si afferma da sola, il tempo seleziona, molti grandi successi sono fuochi di paglia, si bruciano subito e lasciano solo cenere, il grande artista spesso parte in sordina, cresce lentamente nel tempo, ma poi il suo fuoco non si spegne più".

Silvia Guidi, lettera22

NAPOLI, PUNTO E A CAPO di Valerio Balestrieri

La piecè d’atmosfera di Roberto Andò vive l’emigrazione senza confini di spazio e di tempo

PROPRIO COME SE NULLA FOSSE AVVENUTO

di Roberto Andò

da Anna Maria Ortese e da Diego de Silva e Vincenzo Pirrotta
musiche Marco Bettascene

costumi e luci Gianni Carluccio
ideazione del suono Giuseppe Rapisarda

Durata: 85 minuti
TARGET - Spettatore livello EXPERT dai 30 anni in su

MY Showreel

DRAMA – Napoli come la “Dogville” del regista danese Lars Von Trier, anche se non disegnata; qui le case (gli spazi o le identità) restano circoscritte in vasche con un ‘pavimento’ d’acqua, in cui camminare con stivali di gomma. E’ l’uomo che si adatta alla sua condizione: “Lasciam’ fa a Die!”. Persone come spettri galleggiano in una continua "nazzecata" (il lento procedere dei Perdoni dietro le processioni) e fanfare funebri si alternano a suoni e voci di metropoli. “La città si copriva di rumori come per non pensare”. E’ tutto un imperfetto ed un passato remoto, fatto di scialli neri, fischi, preghiere e attese: “Gli altri non esistono se non come opportunità di colloquio, ed ogni colloquio è un monologo con se stessi”. Persino per due bambini al calcio balilla il tempo non passa: sempre lì, stessa palla, stessa partita, stessi giocatori. “La gente non sopporta la noia, perché la noia gli ricorda chi sono.” Via di scampo il mare, la nave, una partenza, la speranza, il Nuovomondo, inseguendo l’ennesima processione dietro un Santo vivo che declama. Ma stavolta la Processione si stende, prende il pubblico e lo trascina verso il porto; il procedere è lento a suon di marcia funebre. Non si distingue più chi parte (attori) e chi resta (spettatori). Quindi il ponte della nave e l’addio amaro: “Un paese deve consentire la crescita di anime e coscienze”. E si parte. Ma c’è ancora spazio per un’ultima riflessione: “La libertà è un sogno? No! E’ un respiro.” Buio.

SET – Ambientato in tre location propone un primo spazio fatto di vasche (case) e porte senza muri. La Platea è ad un passo. Di sfondo un’autobus, simbolo di viaggio, anche se breve. Di contorno spazio di rumori. Ogni vasca è un quadro di dettagli e di condizione. Peccato non siano visibili dall’alto. Il secondo spazio è il percorso, quello che conduce alla nave. L’esserci è simbolico. Il terzo è un molo, con ponte di nave, mare e Napoli di notte come vivo fondale.

ACT – La recitazione è spicciola, riflessiva ma anche imbastita di napoletanità. Passaggi live si alternano a brusii pre-registrati. Si parla sempre su un tappeto sonoro. E’ più un lento andare, sempre, apparente andare senza muoversi. La processione con banda e finale sono di atmosfera Emir Kusturica.

MOOD – Una regia cinematografica, fatta di primi piani e dettagli; Inclusiva e avvolgente capace di sfruttare le doti panoramiche e simboliche della location. Lo spazio di apre a tal punto che attori e figuranti al passaggio di aerei di linea (veri) sollevano lo sguardo. Per tutti, partire è un po’ come morire.

Una produzione
Napoli Teatro Festival Italia
in coproduzione con
Cooperativa Gli Ipocriti

Another sleepy dusty delta day, la ballata di Bobbie Gentry

Another sleepy dusty delta day
Quando arriva, la danza non è una danza, è un pestaggio, lo stupratore è la musica che batte i colpi e le insinua l’epilessia sotto la pelle, le disarticola i muscoli e le scuote le spalle di spasimi, oppure la blocca davanti alle gabbie appese al soffitto, improvvisamente graziosa e stupida come un cigno. Prima c’era una ragazza che leggeva una lettera, felice di essere chiamata mia principessa, come tutte le donne dai sei anni in poi, che lo ammettano o no, una ragazza che piega e spiega, bacia e ribacia il foglio azzurro macchiato da dove sale ancora tutto quel dolore.
Quello di lui è un addio semplicissimo, e ben argomentato: facciamola finita con la paura, con la corazza di bugie necessarie per non lasciar penetrate le ferite troppo a fondo, basta anche con il ricatto dell’amore, meglio concentrare tutta la morte in una volta sola, in un tuffo. Niente di eroico o di politico, solo un piccolo passo da un ponte mentre nessuno vede.
Nessuna tenerezza per questo corpo, chissà se finirà gonfiato dall’acqua come un mostro blu o in polvere come un vecchio scheletro tarlato.
E intanto il viso di lei si sporca di carbone, e i denti bloccano il trenino finto delle rassicuranti domeniche in famiglia, e la fidanzatina carina Hollie Hobby si trasforma in Hukleberry Finn che fa i dispetti ai fratelli per non piangere, e le mani cercano il freddo della bottiglia, la birra finisce in mezzo alle gambe a fare pipì contro il muro come in un gioco scemo di bambini.
"Povero Billy Joe, chi l’avrebbe mai detto: una fetta di torta di mele o due?" commentano i genitori a cena.
Sollievo l’una nell’altro, riposo l’uno nell’altra, ecco cos’ hanno buttato come un fagotto sporco dal ponte Billy Joe e la sua ragazza, dice la canzone di Bobbie Gentry che ha ispirato il lavoro di Jan Fabre. "Era il tre giugno, un’altra sonnolenta polverosa giornata nel Delta". Resta la noia dei pomeriggi che non finiscono e (di chi è la colpa?) la stonatura spaventosa delle poche parole in italiano. Non si spezza un sogno, non si interrompe un’emozione, si diceva dei film in tv aperti in due come una cozza dagli spot; le marche della birra, gli ammiccamenti in italiano della (per il resto bravissima) protagonista uccidono tutto, interrompono l’alta tensione in sala creata dalla lucida follia del francese, spezzano il fiato all’attesa e ricacciano tutto nel banale. Per favore, non risparmiateci la fatica dei sottotitoli.

Silvia Guidi, lettera22