lunedì 30 giugno 2008

La famiglia ai tempi del colera

È un flusso di coscienza quello che viene portato in scena da Carmelo Rifici, regista di Chie-chan e io, tratto dall’omonimo romanzo di Banana Yoshimoto, al debutto assoluto al San Ferdinando di Napoli il 13 giugno. Ad adattarne il testo il suo traduttore di sempre, Giorgio Amitrano.
Difficile trasporre teatralmente un lavoro della celebre autrice giapponese. Perché Banana Yoshimoto non punta su grandi azioni o dialoghi ritmati, motori di un più semplice adattamento per le scene. Tra le sue pagine quel che si muove sono i sentimenti, la memoria, le atmosfere. E forse per questo, tra i suoi lettori, o è molto amata o non piace per nulla.

I testi della Yoshimoto andrebbero letti in solitudine, così da immergersi in quel rapporto intimo e psicologico con i personaggi. Eppure il teatro è proprio il contrario. Così Rifici, nello spettacolo, tenta di mantenere questo scorrere narrativo continuo, rappresentato anche da un ininterrotto movimento sulla scena, un fluire dolce e incessante.
A racchiudere i movimenti un involucro quasi asettico, di un bianco clinico addolcito nelle forme, che permette di esaltare gli elementi colorati al suo interno: abiti, accessori, luci di scena.

Ancora una volta Banana Yoshimoto rappresenta un nuovo gruppo familiare, in cui ai tradizionali elementi se ne sostituiscono di alternativi. Nei suoi testi la famiglia d’origine, quella biologica, non ha ormai più - da tempo - il ruolo di protagonista, sostituita da una rete di relazioni e d’appartenenza scelte giorno per giorno. Un rapporto tra cugine diventa così il motore dietro a cui si movimenta la storia, che viene presentata al pubblico quasi fosse un sogno. Il regista dà vita alle quattro Kaori su un andamento polifonico che sembra costruire una partitura. Dall’altro lato Chie-chan, l’anima fragile, da accudire, su cui riversare tante sfumature d’amore. Un’affinità elettiva che completa e chiude al resto del mondo. Loro due, le ipomee e quel bozzolo protettivo in cui non c’è posto per nessun altro.

Daniela Arcudi

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