sabato 21 giugno 2008

PROPRIO COME SE NULLA FOSSE AVVENUTO

FUNERALE VIVENTE IN ATTESA DI ASSOLUZIONE

di Tommaso Chimenti Bencini

NAPOLI – “Disumanizzare Napoli non deve essere stato facile, ma ci sono riusciti”.
In un doppio giro di boa diverso ed opposto, Napoli- U.s.a. e ritorno, con imbarcazioni, Titanic e portaeree, pattuglie, figli per mano e moccolo al naso e valigia di spago e cartone finta pelle e soldati d’elmetti e chewing gum e cioccolata e sigarette sciolte, monete, dollari e miseria (senza nobiltà), è compresso il lavoro di Roberto Andò alla Darsena Acton. Compresso è parola ingiusta viste le proporzioni monumentali dello spazio-installazione vivente, un’arena-chiostro occluso tra palazzi rosso pompeiano, e della popolazione attoriale e di comparsate che sfiora le cento unità, con banda al seguito. Come tutti i funerali che si rispettino. Tanti quadri orizzontali gli uni accanto agli altri divisi da piccole barriere, recinti bassissimi di animali, con il surplus-omaggio di una valigia, ma che sembrano insormontabili, che dividono la gente, tolgono solidarietà come fa il mago con la tovaglia da sotto le stoviglie. Dentro ogni piccola vasca tutto è fangoso e sporcato come da schizzi di dissenteria. Piccole assi in quadrato dove con i piedi sguazzano altrettanti mondi napoletani con le caviglie impantanate e zuppe nei problemi da annegarci, nel mare la cui brezza qui arriva felina assieme ai gabbiani ed agli aerei che tutti i comprimari (la vita che entra prepotente nel teatro rigenerandosi a vicenda) si voltano naso all’insù a guardare, constatare, seguire la scia buia di lucine. Acqua, onde che sgocciolano come tubi a perdere nei Quartieri Spagnoli, onde che s’infrangono a Mergellina, onde che non trovano sbocco e decidono di tornare al largo. Mondi distanti, i guappi sulle vespa, il sigarettaro, un Maradona anziano con la maglia numero 10 Buitoni che fa stretching, preti, un morto sul letto, camerieri a “faticare”, vedove a lutto, donne cinesi a tessere, un bar aristocratico che potrebbe essere il Gambrinus di Piazza del Plebiscito, tutti uniti dall’andare, nel limbo dell’attesa diaspora, dal partire in questo riflusso di chi porta democrazia e sifilide e sottrae dignità, come già sottolineò “La pelle” di Malaparte. Anna Bonaiuto, sempre altera, è un Caronte in tailleur tra il degrado e la decadenza, toccando con occhi schifati la piazza e la corruzione, la povertà oscena di risate grasse. Perché Napoli è prostituta e santa, è “Salve Regina” e storpia, è tempesta e dolore di bicchieri rotti, è nuda e gravida, è lirica e melodrammatica e teatrale, è valle di lacrime. Ed il pubblico si miscela con gli emigranti (ricorda “Nuovomondo” di Crialese) chiusi, emarginati nei confini della propria città ed in terra straniera, in una fiumana- corteo funebre, condotti, nella transumanza lungo porto, da Vincenzo Pirrotta sul palco traballante d’impalcature, nel cunto stoppato del maestro Cuticchio e punte da Tom Waits, e Maria, sempre più dopo “Gomorra”, Nazionale a cantarne le povere gesta.

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