giovedì 19 giugno 2008

Recensione England

Un cuore senza capanna

di Tommaso Chimenti Bencini

NAPOLI - Il cerchio si chiude a ventaglio, partendo dal taglio delle foto alle pareti, verticale che indica la ferita, lo squarcio verso il sesso, nel profondo, nella pancia, nel ventre che rilascia la vita, la stessa protuberanza cavica e cavernosa malata, fino alla sostituzione, allo spostare l'essenza, il respiro, il cammino, il donarsi, l'amare. “Guardate” dicono i due amanti in questa loro casa-museo di morte apparente. “Guardate” ed indicano le pareti compresse della Galleria Primo Piano, spazio perfettamente sovrapponibile al testo di Tim Crouch, per la messinscena di Carlo Cerciello. Perifrasi chiave, nella traduzione graffiata di Luca Scarlini: “Se non fosse stato per te sarei morto”. Dedizione e supplica, mistero della fede. La donna è malata, e di lui succube, l'uomo è un mercante d'arte, particolare da non sottovalutare nell'esplicazione, con rimandi, a ritroso, a gambero, della vicenda, trama infittita, di lanci e ritorni, a zig zag dentro il testo, alla scoperta dello stesso. Scambiare, prendere, vendere, ricevere, contrattare. La malattia è l'opera d'arte del nostro tempo, la perfezione di corpi fallaci e fallimentari, di macchine irrisolte, piene di difetti congeniti, perché la vita è l'unica patologia che si cura con la morte, panacea di tutti i mali stagnanti. Ed in questo continuo scambio di ruoli tra i due, superba Mercedes Martini, cinico e ficcante Paolo Coletta, nel contingente spostamento spazio-temporale tra la galleria e Londra, con pareti e vetrate identiche a stabilire un contatto percettivo e visuale, nell'esigenza della trasformazione contenitiva dei luoghi, “England” diviene processo, e alle intenzioni di una intera società, e al bisogno, estremo, intenso, eterno, di avere idoli e santi terreni, totem da dover poter pregare a mani giunte, simulacri non intercambiabili come organi, altari ai quali votarsi, anima e corpo, per carpirne la pace interiore, visto che quella della carne è mangiata giorno per giorno, ora per ora, dalla vita che scorrendo si tramuta, e trasmigra le proprie cellule grigie in anfratti segretissimi di respiri da ventun grammi. Il face to face, contemplativo e senza contatto, ma per questo non senza sangue, mentre in audio la terza donna in nero cerulea e mortuaria con il suo mini transistor spiana la strada a ticchettii ospedalieri da screen con diagrammi verdi e bip ritmici, tra la vita che scorre nel corpo risanato e chi è rimasto, orfano e sottratto, del caro strappato per concedere il suo chilo di manzo pulsante di aorte e ventricoli, è un concentrato di speranze negate, di perfezioni rubate, di tumori tolti e regalati sotto forma di quadri in una riconciliazione tra vivi impossibile da sostenere anche solo con lo sguardo. Perché se l'opera d'arte è la malattia, che genera e riproduce vita, la salvezza, effimera e temporanea, chirurgica, ha il sapore del capolavoro. Fino alla prossima pennellata di bisturi.

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