giovedì 19 giugno 2008

A CAUSA MIA di Francesco Saponaro

Primeparole. La sala è poco illuminata. Anticamera. Affollata, sempre più, di spettatori in attesa di ritrovarsi tutti insieme testimoni. Abbiamo un processo da affrontare. E sarà da ridere e scorgere. Entriamo spediti, posti-in-piedi, siamo spettri che giocano coi vivi che evocano spettri.
di Sergio Lo Gatto

Ecco le suggestioni. Una volta dentro, la sala è nelle mani di tecnici e scenografo (Lino Fiorito), che sappiamo hanno preparato di tutto per stupirci. Lo spettacolo, prodotto dal Festival con Mercadante, Stabile d'Abruzzo e Teatri Uniti, in prima assoluta, porta il sottotitolo “il processo D'Annunzio-Scarpetta – teatro e cinematografo a Castel Capuano”. È stato pensato per quel luogo in cui le tenui ma grasse luci di Cesare Accetta ci chiudono, come in una cattedrale. 
Scarpetta (Gianfelice Imparato) dorme in un letto in fondo alla sala, tormentando a schiaffi e calci la moglie Rosa (Luciano Saltarelli), mentre sul maxischermo alle sue spalle scorre il film muto/incubo di D'Annunzio (Peppe Servillo) e del “gregge” de “La figlia di Jorio”. Il risveglio, omaggio a “Natale in casa Cupiello”, ci getta in un divertente battibecco moglie-marito sulle pene d'artista di Scarpetta drammaturgo, alle prese con l'ossessione di parodiare il dramma pastorale di D'Annunzio. Eduardo si figura in testa – e a parole – il capolavoro comico che sarà, montandolo nel particolare davanti agli occhi del pubblico, con tanto di materializzazione dei personaggi, in un efficacissimo flusso di genio creativo sputato quasi in gramelot. È la lingua dello spirito. Poi la decisione di Scarpetta di andar a domandare scritto un permesso allo stesso Vate, trovato sullo schermo di un nuovo film muto, stavolta con tanto di sottotitoli, nel suo harem di donne lascive. Sordo anche ai “versi” per chitarra e mandolino dedicatigli dal maestro di Napoli, nel rifiutare di cedere i diritti a nuovo autore. Sarà poi, dopo i fischi impietosi del Mercadante bestemmiati da Scarpetta, la volta di una lunga chiosa del giudice Giuseppe Lustig (perfetto Gigio Morra), che scagionerà il drammaturgo dall'accusa di plagio e diffamazione, lasciando tuttavia spazio a una morale amara. 
Imparato è grande nel volare sul dialetto stretto, anche pagando qua e là con la moneta dell'incomprensibilità, ma regalando poi, soprattutto nei tratti del testo (di Marfella, Marino, Saltarelli e Saponaro) sapientemente musicati da rime e assonanze, pillole di puro estro scenico che non dimentica mai il corpo a sfavore di pubblico.
Più di tutto si gustano drammaturgia e produzione in generale, con un accordo felice intonato da Servillo/D'Annunzio, prodigo d'espressioni minute e “in stile”, come durante la “serenata” di Scarpetta. 

Sergio Lo Gatto

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