giovedì 19 giugno 2008

Recensione “A causa mia”

Processo alle intenzioni

di Tommaso Chimenti Bencini

NAPOLI – I piccoli ventagli di cartone, che inneggiano stampati i nomi dei protagonisti del festival, sventolano coreografici come le mille e più bandierine attaccate e penzoloni nei Quartieri Spagnoli. Fuori fuochi d’artificio, chissà poi perché, le trombette per gli Europei, anche se non gioca l’Italia. Dentro è marmo sotto, panche di legno, come i soffitti, affreschi da esserne inghiottiti. Tony Servillo è in prima fila: preciso, composto, un solo sorriso d’assenso alla fine. Sembra che sia il solo a non sudare immersi nel caldo sahariano. Scarpetta (Gianfelice Imparato in una delle sue più “felici” stagioni) e D’Annunzio è lo scontro culturale che anima “A causa mia” di Francesco Saponaro, fatto storico tra farsa e parodia, nella realtà come nella rappresentazione di Castel Capuano, in una vicenda che sa di plagio e fregnaccia, di azzeccagarbugli e Carabinieri collodiani con accento leghista, padano e celodurista. Tutto è sopra le righe. Il letto disfatto che tanto sa di basso e d’arte povera, ma dove fioriscono le idee scandagliate tra le lenzuola accartocciate e l’anca della moglie (l’abile Luciano Saltarelli), vigile e dittatoriale, che reprime l’estro, sancisce le priorità, delinea il prossimo futuro in perfetta linea con la società matriarcale del Sud. Nel video-palla di vetro da oracolo, trasognato, in bilico tra il mistico, l’esoterico e la bolla di sapone, che governa dall’alto la scena trova spazio un’altra parodia, quella che ha come marchio il logo dell’Istituto Luce che certifica la bontà e la veridicità del muto scattoso D’Annunzio, quasi un torero dall’aria fiera e mento volitivo, che ha le vesti, il volto e la calvizie, di Peppe Servillo nelle sue occhiaie descrittive, nei sui pensosi accigliamenti in un doppio sipario che quando si chiude nelle immagini apre nella scena a ping pong tra l’alto ed il basso, la realtà (Scarpetta) e l’assoluto (D’Annunzio) irraggiungibile sottolineato dal verso “alla montagna io debbo ritornare” in un gioco-scontro di sguardi di pupille sgranate, di ciglia sbattute. Ed irascibile, vista la causa giuridica. Maometto e la sua montagna da scalare. La bombetta ed il pizzetto, così iconograficamente semplici e puliti, fanno respirare la diversa visione d’insieme. Ed il grottesco raggiunge il massimo della partenopeicità con il Giudice-Santo agghindato con corona che impugna un albero-scettro con piccoli falli metallici e tintinnanti in un processo che anche nell’assoluzione sa di sconfitta fischiata sonoramente. Per tutti.

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