venerdì 20 giugno 2008

“Cosa deve fare Napoli per rimanere in equilibrio sopra un uovo”

Ghostbusters and friarielli

di Tommaso Chimenti Bencini

NAPOLI – Il moccolo di candela odora di spettri travestiti da meduse. La mano destra mi copre la luce, ma ormai siamo abituati a camminare bendati, abbagliati dal catrame dell’oscuro. Sorridendo, come il tarlo che s’è mangiucchiato, sforacchiato questo legno orizzontale, tavolo finto marcio. Il gomitolo è troppo lieve per impiccarsi.


In un percorso dove perdersi è indispensabile e ineluttabile, attraverso il proprio filo d’Arianna compresso in un “gomicciolo” (per dirla alla maniera dello psicodramma autogestito dei tipi di Monticchiello e del loro teatro povero), gomitolo itinerante tra gli antri (niente Sibille, qui), gli alveoli e le cavità molli delle esistenze, personali ed infittite, intrecciate, ingarbugliate a quelli di altri simili, piene zeppe di nodi, con abilità sfuggendo alle abili Parche, arpie parsimoniose di tessere uncinetti e trine, che consegnano, in una nuova nascita, il piccolo spago morbido arrotolato da accrescere, dipanare, sciogliere. A seconda delle vite, delle esigenze, delle diverse direzioni prese. Un auto parto questo “Cosa deve fare Napoli per rimanere in equilibrio sopra un uovo” di Enrique Vargas, dove la città del Golfo è presa ad immagine e somiglianza della varia umanità che in essa vive e brulica, sciama e cammina in chilometri di vicoli e respiri. Gli uni sugli altri. In bilico su un uovo, a tentoni, trapezisti circensi che imparano il mestiere cadendo, sbagliando, cercando di mettere un passo dietro l’altro per evitare di incidere i canini sull’asfalto. E nella bilancia emotiva a pareggiare la Napoli cofanetto e cartolina sta un cesto (le mele, ammuffite o sane, della strega di Cenerentola) di anime nere come le bende che cancellano la vista del pubblico dal noir in un doppio strato di vista negata in un’avanzata di non vedenti che, mani in avanti come zombie, odorano di profumi e sentori, mischiandosi al vociare basso e fitto da mercato e vico, sotteso e sottopelle che entra nel pietrisco di vie tortuose e compresse e sconnesse. La vita, come la morte, è un carnevale-funerale balcanico, nei sotterranei dove le matasse formano costruzioni arcuate ed immaginifiche che ricordano la base della Torre Eiffel, una struttura che cresce e si autoalimenta con nuovi nodi e vite in un destino mai fisso e immutabile e prevedibile. Quello che, aprendo la mano, è circoscritto, come l’Universo prima del Big Bang, come bozzolo prima dei colori delle ali, in un microcosmo sferico, immenso ma che continua a poter rimanere in un palmo.

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