sabato 28 giugno 2008

“Death is certain”

SIAMO TUTTI CILIEGIE: QUANDO CI APRONO SIAMO ROSSI.


di Tommaso Chimenti Bencini

NAPOLI – Che la morte sia una certezza è un’idea talmente lampante e ordinaria che la cultura occidentale la vuole, attaccata com’è alla materialità della vita, allontanare, nascondere con il vizio del fare, del programmare, del progettare. La crescita esponenziale manageriale, quella che ti fa credere, sprovveduti ed illusi, che domani sarai migliore di oggi, quando invece hai solamente un giorno in meno da poter spendere. E non c’è salvezza, che questo sia chiaro. Da una parte il tavolo con i ferri del mestiere, con gli strumenti che porteranno dolore e procureranno la morte. Eva Meyer Keller nel suo spazio bianco manicomio asettico non prova pietas, ma neanche accanimento. La tortura è un lavoro come un altro: il carceriere statunitense che percepisce uno stipendio per abbassare la leva della corrente della sedia elettrica aziona il meccanismo e si toglie dalla schiera dei disoccupati solo perché sa che altrimenti lo farebbe qualcun altro al posto suo. Non è un problema di morale che, qui come nella quotidianità, è sorpassato dalla necessità. Fare quel che si deve. E farlo bene. Arrivare alla conclusione del progetto. Trattare la fine, altrui, come l’inizio del normale percorso della propria giornata, senza affibbiargli, addosso, sopra, dentro, troppi significati. La morte c’è. Eccovela, ve la sbatto in faccia. La morte è sporca, come la vita. Produce liquami, schizzi. La morte fa rumore, la morte è schifosa. Perché storcere il naso? E’ inutile che siate disgustati, finti, falsi e ipocriti. Ai kamikaze iracheni ci abbiamo fatto il callo, agli 11 settembre no. I morti non sono tutti uguali. Cesare Pavese la pensava in maniera differente. Il rosso imbratta il tavolo che diventa campo di battaglia tumefatto. Ciliegie come martiri cristiani: impalate, annegate, ingabbiate in gogne medievali, crocifisse al muro, squartate, gassate da campo di concentramento, arse come Giovanna d’Arco, d’iniezione letale alla U.s.a. (e getta), scarnificate come San Sergio, infilzate con aghi da voodoo, infilate in mini botti chiodate e shakerate come Attilio Regolo, disossate, sepolte vive, buttate nel cemento alla maniera mafiosa, murate vive come il conte Ugolino o trapanate da dentista de “Il maratoneta”. L’importante è finire, cantava Mina. Sangue, sesso, sport, spettacolo, soldi. Le cinque S dell’attrazione della comunicazione. Il pubblico sadico fa le foto con i videotelefonini, chè la morte fa sempre show, la morbosità di rallentare in macchina guardando il corpo del motociclista con la testa sul marciapiede, la voglia repressa degli scatti di Lady D agonizzante. La strage delle innocenti è compiuta. Complici, assassini alla pari del macellaio. Come non vederci i Khmer Rossi cambogiani, tutti i Garage Olimpo disseminati, Gli Hutu e i Tutsi ruandesi, Saddam con i curdi, Putin e i ceceni, nazisti vari. Che la tortura è comunque forma d’intelligenza e d’inventiva.

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