venerdì 27 giugno 2008

Medea burkinabè

È riuscito a far parlare persino gli aerei di passaggio il regista Jean-Louis Martinelli; sfrecciando a bassa quota sul teatro a cielo aperto del Reale Albergo dei Poveri davano lampi di sospensione e mistero alla furia di Medea-Odile Sankara, interrompendo i canti salmodiati della tradizione Bambara sull’abbandono, l’amore per i figli e la durezza dell’esilio, imponendo il fermo immagine ai sorrisi finti di un Giasone-fotomodello in doppiopetto grigio che rinnega sua moglie per il jet-set omologato e convenzionale di re Creonte. Nessun effetto speciale, nessuna amplificazione ulteriore, solo il rumore degli aerei veri (ipertecnologico, quotidiano e alieno, celeste e terrestre allo stesso tempo) che appena dopo il decollo prendevano quota verso il buio, entrando a loro insaputa nello spazio scenico di una tragedia scritta da Euripide, tradotta in lingua occitana da Max Rouquette e travasata di nuovo nel francese attraverso il filtro di un dialetto burkinabè. Suoni quotidiani e alieni fanno da colonna sonora a Medea-Odile, terribile quando fissa un punto mentre la mano vaga persa lungo il bordo della veste blu chiazzata di scuro, il ricordo del mare e della salsedine che porta ancora cucita addosso, residuo del tradimento e della strage dei suoi per amore di un uomo che la sta trattando come un ferro vecchio. E di ferri vecchi, impalcature rugginose, secchi di plastica sporchi è piena la scenografia, fatta soprattutto di persone. “Se vuoi andare veloce vai da solo. Se vuoi andare lontano vai insieme agli altri” dice un proverbio africano; il coro è parte del racconto perché la persona non esiste se non in una trama di rapporti, l’amore uomo-donna è talmente forte e pieno di promesse da distruggere tutto quando è trascinato del fango. Martinelli racconta una furia impossibile da controllare attraverso i cardini della cultura tradizionale africana, come il rapporto con l’acqua o il fuoco, prezioso per disinfettare e proteggere; elementi banali e scontati per noi, fattori che decidono tra la vita e la morte in Burkina Faso, dove l’acqua non c’è e quando c’è può essere contaminata, può far ammalare o salvare un villaggio intero. Il bidone arrugginito colmo di pioggia dentro cui parla Odile-Medea non serve solo ad amplificare la voce, ma racconta anche la nostalgia per l’infinito di un Paese che non ha accesso al mare. Dell’uccisione dei bambini resta l’abluzione rituale e un segno di gesso bianco in mezzo al petto, perché una regina che muore deve essere accompagnata da altre morti; a Lagos, nella vicina Nigeria, si dice che il corpo del sovrano deve essere fasciato di cadaveri, altre sette salme devono impedirgli di toccare le pareti della sepoltura. Per questo Medea, morta dentro, ha bisogno del cadavere dei figli.

Silvia Guidi, lettera22

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