venerdì 27 giugno 2008

Senza sangue

“Senza sangue”, ovvero l’amore ai tempi di Twin Peaks, dove il colera del male e della crudeltà viene disinfettato dall’algida perfezione della tecnica. O anche la parabola di Lolita al contrario, visto che il libro di Baricco è un pretesto per raccontare una storia dove il killer (nome di battaglia Tito, vent’anni) riscopre il suo vero nome (un nome da campesinos, Pedro Cantos), e la voglia di ricominciare grazie allo sguardo di una ragazzina, Nina Roca, ritrovata dopo trent’anni. Una ragazzina che lo guarda tranquilla dal fondo di una botola, “con le labbra ben disegnate, la camicetta bianca e la gonna stirata, pulita e tiepida come un animaletto nella tana”; dovrebbe ucciderla perché è l’unica testimone dell’assassinio di suo padre e di suo fratello, ma non lo farà. Sarà questa “l’unica cosa pulita da cui ripartire” in una vita sbagliata.

Juan Carlos Zagal ha scelto di raccontare la storia di Nina con i colori freddi e iperrealisti dei quadri di Hopper e dei film di David Lynch, gli interni di caffetterie semivuote o affollate di avventori-spettri che virano sul rosso magenta, i boschi ottenuti dalla trasparenza di fotografie sovraesposte in tutti i toni dell’azzurro. Nina è una piccola Laura Palmer televisiva annegata in una vita non sua, avvolta in un cellophane trasparente di menzogne; a distanza di trent’anni, una donna con il viso pallido, i capelli platinati, la voce incolore e i movimenti legati da un rancore represso troppo a lungo, una “donna chiocciola” che tiene il suo vero io ben nascosto al riparo dall’esterno.

In “Senza sangue” l’effetto speciale, la sovrapposizione tra videografica e attori non è più un optional, ma è uno spazio da abitare. Salinas, Tito ed El Gurre (i tre “cattivi” che appaiono sullo schermo-palcoscenico all’inizio della piéce) camminano in un cartone animato abitato dai fantasmi, con sulla faccia le maschere da fumetto di Sin City, la città del male del famoso e copiatissimo film di Frank Miller. Il momento dell’ omicidio è solo disegnato: uno schizzo di sangue rosso su nero, versato sullo schermo. Potrebbero spuntare in ogni momento Benicio Del Toro o Clive Owen vestito da vendicatore solitario, tanto le immagini ricordano i fumetti della Dark Horse Comics, se la storia del Paese di origine della compagnia non facesse sentire la sua presenza: il Cile con tutto il suo bagaglio di ferite da guerra civile, i suoi slogan vuoti (come la necessità di “arare la storia con il sangue versato” e l’apologia della “percentuale di strage necessaria”), e il terrore per tutto ciò che è “roto” (volgare, dozzinale, banale) tipico degli ambienti artistici di Santiago, che porta all’estremo la sperimentazione hi-tech.

Silvia Guidi, lettera22

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