venerdì 20 giugno 2008

Nuove Sensibilità 17/06/08

Capelli selvaggi che coprono
occhi grandi, truccati, vanitosi.
Teste inclinate verso il futuro.
Bocche mute recalcitranti.
Graffi dipinti sul ventre di una donna.

Nuove Sensibilità che prendono coraggio, che evolvono, che vogliono spogliarsi. Mostrare una pelle nuova, giovane, tonica, temeraria. Alla quinta serata al Nuovoteatronuovo, si delineano varie fisionomie. Alcune compagnie hanno dei tratti somatici concreti, consapevoli di essere portatori di innovazione, liberi dall’ansia “da precedente”. Corpi nuovi che osano, rischiano, si sbilanciano, eccedono, alcuni cadono ma almeno lo fanno con dirompente onestà. Altri mantengono dei tratti di un certo teatro “adulto”, un teatro vanitoso, che gode nell’essere guardato e non capisce di tradirsi da solo: una posa che svilisce il racconto.

Di punto in bianco di Lara Guidetti apre la serata in maniera prorompente, su un palco nero sono accatastati oggetti dai colori sgargianti, irrompono tre ballerini che appaiono manovrati, manipolati, posseduti dalla musica che li accompagna. Si agitano, si contorcono, si scontrano, sembrano sempre sul punto di farsi male, di raggiungere un irreversibile climax che però tarda ad arrivare. La coreografia iniziale -le punte, protese i muscoli programmati, le espressioni plastiche- perdono incisività perché si dilatano ben oltre il prologo non arrivando però a una narrazione concreta.

Zia Rosa per la regia di Valentina Rosati vuole raccontarci dell’insoddisfazione, della violenza dei sentimenti, del disamore, del brutto dell’uomo potremmo dire. Per fare ciò c’immette in un palco cosparso di rose in cui ci attende una donna dal volto elegantissimo e curato. Per quanto le sue scarpe possano essere sporche e le rose dovremmo immaginarle sciupate, è molto difficile cogliere il laido della faccenda. Per compensare e per narrare viene introdotto il risucchio volgare di una lingua tra di denti e poi il corpo ripugnante di una donna anziana, mal concia, noiosa e un po’ deficiente. La storia procede dritta, come un corpo in prova che fa un esercizio, che mostra quello che ha imparato.

L’albero per la regia di Marco D’Amore è il primo lavoro della serata che apertamente e onestamente dichiara la sua giovinezza. Il testo e la drammaturgia originali di Francesco Ghiaccio sono di grande innovazione rispetto agli altri lavori, una sperimentazione teatrale completa dall’ideazione alla realizzazione. Questa autenticità restituisce allo spettatore forte emozione e commozione. Storia di due fratelli separati “dalle stagioni e dai paesi lontani” che si rincontrano dopo averci narrato dei loro rispettivi piccoli, durissimi mondi. Gaetano Colella e Marco D’ Amore seppure appaiono nascosti da miriadi di bolle di sapone, sono scevri da orpelli e non usano escamotage di alcun genere. I due attori emergono con talento e tenacia vivendo visceralmente l’infanzia, le sconfitte, le illusioni e le gioie dei due fratelli di cui ci parlano. Teatro nuovo, giovane, sincero e consapevole. Ricordano un nipote che ritrova i suoi tratti somatici nella foto in bianco e nero del nonno nei suoi anni migliori. Un passato che prende bellezza sulla guance distese del nuovo.

Family Show –Acquari di famiglia- per la regia di Lorenzo Facchinelli ci riporta tra le dinamiche delle scene contemporanee. Ci sono molte idee spiegate sui corpi dei personaggi di questa famiglia spagnola, borghese, frustrata e “volgare”. Ogni fisionomia è disegnata con chiarezza e professionalità. Anche lo spazio è gestito bene e funzionalmente al racconto. Ci sono tutti gli elementi, persino la trovata conclusiva che muta i volti degli uomini in pesci. Purtroppo però manca l’imperfezione, il tentativo di distaccarsi, di scegliere una strada poco battuta.

Affascinata (Ammaliàta) composta e diretta da Giuseppe L. Bonifati è il secondo lavoro della serata che stupisce. L’ Orchestra popolare di quattro voci e tre seggiole mette in scena il mondo popolare del meridione, una mescolanza di storie, riti e credenze sostenute da un intreccio linguistico a cui è difficile (e sbagliato) dare dei confini. Il racconto è armonizzato da una partitura per corpi e tamorre che non si spartiscono ruoli distinti, ma danno voce a una storia “qualunque” incentrata sul malocchio. Il gruppo riesce a portare in scena una esemplificazione dell’ossimoro tradizione-innovazione immettendo elementi di forte contemporaneità nella semiotica del popolare. Il corpo di ciascun elemento lavora in funzione della pelle, dell’odore, del suono degli altri. Le fisicità distinte riconoscibili di ognuno danno spessore al lavoro orchestrale che si sviluppa in maniera pienamente teatrale in quanto lavora tanto su un’armonia d’immagini quanto su quella sonora.

Serenella Martufi

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