venerdì 20 giugno 2008

P.O.M.P.E.I

Scusate se nasco.
Scusate se ho occhi.
Scusate se dai miei movimenti vi arriva un odore, un qualcosa di me.
Scusate me.
Scusate.

Come dei feti catapultati nella realtà sensoriale, Alessandro Bernardeschi, Antonio Montanile e Mauro Paccagnella invadono l’aria di chi sta lì immobile seduto a guardare. Si scusano per questa intromissione, non dipende da loro ma dalla danza. Non si tratta solo di punte tese, muscoli affusolati, mascelle rigide e controllate. La coreografia di Caterina Sagna è protesa verso lo studio dell’immagine, di come essa possa essere fuorviante, di come ogni archetipo nasconda un mondo d’imperfezioni e dunque di vita. Il candore del ballerino, della statua, del pulito diventa un falso mito da risolvere. Intraprendere una rivoluzione contro questo bianco che impone una non-esistenza, una perdita di sensibilità. Un danzatore sa anche parlare, può decidere ed interagire. Il pubblico deve vedere che per essere intonsi si deve soffrire, si deve essere disposti a rinunciare ad una propria essenza, alla propria fisionomia. Bisogna ribellarsi a questo soffocante pulizia: il corpo deve riprendersi la propria essenza. Ogni osso, ogni lembo di pelle, ogni pelo creano un tutt’uno pulsante padrone di ogni movimento. Un corpo non ha bisogno di musica per manifestare la propria energia e la propria bravura. I danzatori incalzano il pubblico a proteggere ognuno la propria vivacità. Dobbiamo tutti trovare una maniera per tramandare nel tempo ciò che eravamo, ciò che sentivamo sotto le unghie. Ci istigano a percepire quanto la rigidità sia innaturale, sia una dittatura voluta dal bianco in persona per annientare le differenze, le stonature, le bellezze imperfette. Alcuni gesti convulsi, violenti, reiterati dei tre danzatori mostrano quanto sia difficile dominare autonomamente il proprio corpo, quanto sia necessario avere qualcuno a fianco che ci possa aiutare e sostenere. Forse è per questo che alcuni optano per il candore, per essere controllati e lasciare a terzi la responsabilità del proprio essere. Se è qualcun altro a controllare la mia mano, non potrò essere biasimato se essa atterrerà sul volto di chi mi sta vicino o se si dovesse intromettere nella sua intimità. C’è chi vende la propria autonomia per la tranquillità, c’è anche chi se la vede sottratta, i ballerini, i gessi dei reperti archeologici ad esempio. Qui al Teatro Instabile invece si lavora per rivalutare la nostra organicità. Siamo essere viventi, dunque non possiamo essere mai perfetti, neanche se travolti da ceneri e lapilli e poi colati nel gesso. Siamo sporchi, impuri, e per fortuna imperfetti. Abilmente i tre distruggono canoni e credenze davanti ai nostri occhi spiegandoci perché, illustrando con riso e con enfasi che c’è un’alternativa. Essere amorfi non è un pregio. Nella teca in cui si verrà rinchiusi quando il vulcano sarà, dobbiamo riuscire a portarci la nostra energia, continuare a farla pulsare. Bisogna fottere il tempo, organizzarsi e insistere sul fatto che esistiamo per davvero. Lo sentiamo.

Serenella Martufi

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