lunedì 23 giugno 2008

“P.O.M.P.E.I.”

VULCANO DISTRUTTORE: INNO ALLA GIOIA

di Tommaso Chimenti Bencini

NAPOLI – O anche Perimetrali, Ominidi, Maschilisti, Pagani, Esteti, Impegnati.
Uno scavo, nella sua accezione di mancanza, di svuotamento da rifiuti, che è una catacomba, nell’odore di Purgatorio del vicolo omonimo, un pozzo ripulito, una cisterna da rimbombo, buca della Napoli sotterranea che da un passaggio-apertura-cuccia di Snoopy fa partire linee di meridiana che si spandono in una tenda gigantesca, stella marina che si apre all’abbraccio, copertura da Circus afflosciata a terra. Un tappeto dove nascondere la polvere di chi è passato, calpestando i suoi anni con presunzione vitale, con passi di danza camuffati con parole ritenute imprescindibili, con gesti creduti unici. Facciamo volume. E non ci salveremo. Come una cappa di ceneri che tutto copre ed asfissia mummificando il sotto dove sguazzano, ilari e sorridenti prima dell’impatto finale, i tre danzatori-sub che mischiano precisione e napoletanità in un ingorgo trionfale di sentimenti. E se anche l’ironia non ci fa scampare alla certa conclusione, almeno il viaggio esistenziale, fatto di “mangia, balla e caca”, sarà più piacevole sotto lo strato bianco cadavere, ma anche bianco sposalizio, ma anche bianco schiuma del mare.
O ancora Pigmei, Onanisti, Minimali, Pericolanti, Eterei, Inconsistenti.
Il rapporto con il pubblico è costante, un filo diretto di sguardi complici, caratteristica delle produzioni targate Caterina Sagna (capofila di un processo artistico che, ad esempio, i Teatro Sotterraneo stanno seguendo), in un flusso che è un vortice a comprendere, a portare dentro, per mano, a tratti dolcemente altri con strappi, lessicali o formali, d’intesa non ruffiana che amplifica il teatro alla quotidianità togliendogli, estirpandogli, quell’aria troppo spesso forzata e distanziatrice, tra platea e performer, esaltando, al contempo, lo “spettacolo” sublime della vita, che è la vita stessa. Un inno alla gioia, quindi. E dopo un primo studio di sorrisi, la tristezza cala e vela, e pare, già da qui, scoprirsi l’arcano che il Vulcano emette e sospira: la fine. Paventata e indubbia anche dove il cratere non c’è o non si vede.
Per lo più Perspicaci, Oltre, Mimetici, Passi, Elitari, Incomprensibili.
Che la fine incombe deve esaltare il presente o farlo scivolare nel fatalismo, contraddizione partenopea che da sempre fa i conti con la madre Vesuvio che protegge e minaccia assieme. La coreografia si mescola al ballo tirolese di schiaffi e contatti e colpi che aumentano di potenza e violenza, di schiocchi onomatopeici e leggermente isterici, un duello-capoeira con strategie di scherma dove Napoli entra con forza come un eccesso di velocità nei vicoli a sparigliare, a far alzare le gonne, a contorcere i volti in una smorfia, tra l’infastidito e lo stimolato. E se le lenti sono filtrate dall’azzurro Mediterraneo o dal nero lavico, e se il rattrappirsi è urlante da museo inscatolato in bare di vetro da esporre a macchine digitali, non per questo l’esistenza deve essere immobile e imbalsamata e gessata. E Napoli, che butta la cenere sotto i sanpietrini dei vicoli e si tinge il sorriso di un bianco finto per i turisti, è ancora cartina di tornasole dell’umanità.
Oppure Patetici, Ossessivi, Megalomani, Pericolosi, Esitanti, Insistenti.

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