lunedì 23 giugno 2008

“Tanto amor desperdicado”

DONNA DANNO, UOMO DOMO

di Tommaso Chimenti Bencini

NAPOLI – Dentro il Maschio, metaforico e fortilizio, accadono cose che voi umani nemmeno immaginate. La divisione è tra un portoghese, musicale ma anche lamentoso e strascicato, per i cavalieri senza macchia e senza paura (uno assomiglia incredibilmente a Caravaggio) che da rudi si fanno agnellini sacrificali, in un processo dialettico sublime ma saturo di letteratura e poco di realtà, e la scelta caduta sul francese per le quattro dame, trafficone, imbroglione, traditrici, infingarde, ingannatrici, dedite ai travestimenti, belle ma spigolose caratterialmente che applicano artifici e controffensive da spionaggio in un cortile-arena sabbioso e polveroso che rilascia la propria nube da silicosi attorniato da un porticato squadrato che pare uscito da un dipinto di De Chirico, che sembra fare a pugni, simmetrico e lineare, con il fumo che s’innalza centrale, astratto e misterico. Misoginia a badilate in questo Shakespeare. Due lingue lontane, diverse, per sottolineare l’incomunicabilità dei mondi sessuali. Lo scontro tra lo studio maschile, “matto e disperatissimo”, e la leziosità della carne, tra l’essere cicala o formica, tra le lettere e le dame, gestisce la piece in bilico tra i quattro moschettieri moralizzatori e fanatici acculturati e le donzelle tentatrici che di gentil sesso hanno soltanto una vaga ombra. Nella rena i passi dei contendenti, nemici-antagonisti sembrano a loro volta scrivere altri versi, nuove frasi, diverse soluzioni dialettiche per un percorso narrativo decifrabile per un finale scontato che alza polveroni muovendosi come ballo a corte medievale-corrida-gioco della bandierina da beach. L’amore, trattato alla stregua di una malattia incurabile dalla quale fuggire, tratteggiata con un’ambientazione noir da bassi istinti animaleschi e pericolosi, lascia i quattro paladini distrutti (“Amici miei” ma che si prendono troppo sul serio), disfatti, logori dal sentimento fintanto che il classico espediente del “teatro nel teatro”, con il furbo zotico a menar le danze, non riequilibri le sorti della contesa pareggiando, con pena conclusiva da scontare, la bilancia del dare e dell’avere.

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